De Officiis, Libro 3, Par. da 116 a 121 - Studentville

De Officiis, Libro 3, Par. da 116 a 121

Paragrafo

116
Restat quarta pars quae decore moderatione modestia continentia temperantia continetur. Potest igitur quicquam

utile esse quod sit huic talium virtutum choro contrarium? Atqui ab Aristippo Cyrenaici atque Annicerii philosophi nominati

omne bonum in voluptate posuerunt virtutemque censuerunt ob eam rem esse laudandam quod efficiens esset voluptatis. Quibus

obsoletis floret Epicurus eiusdem fere adiutor auctorque sententiae. Cum his “viris” equisque ut dicitur si honestatem tueri ac

retinere sententia est decertandum est.

Paragrafo 117
Nam si non modo utilitas sed

vita omnis beata corporis firma constitutione eiusque constitutionis spe explorata ut a Metrodoro scriptum est continetur certe

haec utilitas et quidem summa (sic enim censent) cum honestate pugnabit. Nam ubi primum prudentiae locus dabitur? an ut

conquirat undique suavitates? Quam miser virtutis famulatus servientis voluptati. Quod autem munus prudentiae? an legere

intellegenter voluptates? fac nihil isto esse iucundius quid cogitari potest turpius? Iam qui dolorem summum malum dicat apud

eum quem habet locum fortitudo quae est dolorum laborumque contemptio? Quamvis enim multis locis dicat Epicurus sicuti dicit

satis fortiter de dolore tamen non id spectandum est quid dicat sed quid consentaneum sit ei dicere qui bona voluptate

terminaverit mala dolore. Et si illum audiam de continentia et temperantia dicit ille quidem multa multis locis sed aqua haeret

ut aiunt. Nam qui potest temperantiam laudare is qui ponat summum bonum in voluptate? Est enim temperantia libidinum inimica

libidines autem consectatrices voluptatis.

Paragrafo 118
Atque in his tamen tribus

generibus quoquo modo possunt non incallide tergiversantur. Prudentiam introducunt scientiam suppeditantem voluptates

depellentem dolores. Fortitudinem quoque aliquo modo expediunt cum tradunt rationem neglegendae mortis perpetiendi doloris.

Etiam temperantiam inducunt non facillime illi quidem sed tamen quoquo modo possunt. Dicunt enim voluptatis magnitudinem

doloris detractione finiri. Iustitia vacillat vel iacet potius omnesque eae virtutes quae in communitate cernuntur et in

societate generis humani. Neque enim bonitas nec liberalitas nec comitas esse potest non plus quam amicitia si haec non per se

expetantur sed ad voluptatem utilitatemve referantur.

Paragrafo 119
Conferamus igitur

in pauca. Nam ut utilitatem nullam esse docuimus quae honestati esset contraria sic omnem voluptatem dicimus honestati esse

contrariam. Quo magis reprehendendos Calliphontem et Dinomachum iudico qui se dirempturos controversiam putaverunt si cum

honestate voluptatem tamquam cum homine pecudem copulavissent. Non recipit istam coniunctionem honestas aspernatur repellit.

Nec vero finis bonorum et malorum qui simplex esse debet ex dissimillimis rebus misceri et temperari potest. Sed de hoc (magna

enim res est) alio loco pluribus; nunc ad propositum.

Paragrafo 120
Quemadmodum igitur

si quando ea quae videtur utilitas honestati repugnat diiudicanda res sit satis est supra disputatum. Sin autem speciem

utilitatis etiam voluptas habere dicetur nulla potest esse ei cum honestate coniunctio. Nam ut tribuamus aliquid voluptati

condimenti fortasse non nihil utilitatis certe nihil habebit.

Paragrafo 121
Habes a

patre munus Marce fili mea quidem sententia magnum sed perinde erit ut acceperis. Quamquam hi tibi tres libri inter Cratippi

commentarios tamquam hospites erunt recipiendi sed ut si ipse venissem Athenas quod quidem esset factum nisi me e medio cursu

clara voce patria revocasset aliquando me quoque audires sic quoniam his voluminibus ad te profecta vox est mea tribues iis

temporis quantum poteris poteris autem quantum voles. Cum vero intellexero te hoc scientiae genere gaudere tum et praesens

tecum propediem ut spero et dum aberis absens loquar. Vale igitur mi Cicero tibique persuade esse te quidem mihi carissimum sed

multo fore cariorem si talibus monumentis praeceptisque laetabere.

Versione tradotta

Paragrafo 116
Resta la quarta parte, che consiste nella convenienza, nella

moderazione, nella modestia, nella continenza, nella temperanza. Può, dunque, qualche cosa essere utile, che sia contraria a

questo coro di virtù? Eppure i Cirenaici, seguaci di Aristippo, e quelli che sono chiamati Annicerii, hanno posto ogni bene nel

piacere ed hanno ritenuto che la virtù sia degna di lode perché produttrice di piacere; passati di moda questi fiorisce

Epicuro, sostenitore e fautore quasi della stessa dottrina. Con questi filosofi bisogna combattere con guerrieri e cavalli,

come si dice, se si vuole mantenere e salvaguardare l'onestà.

Paragrafo 117
Se,

difatti, non solo l'utilità, ma l'intera felicità della vita consiste, come ha scritto Metrodoro, nella salda costituzione

fisica e nella certa speranza della sua durata, certamente questa utilità, che è pure la più grande, sarà in conflitto con

l'onestà. Infatti, in primo luogo, quale ruolo si assegnerà alla prudenza? Quello, forse, di cercare piaceri in ogni dove?

Quale infelice schiavitù, quella della virtù assoggettata al piacere! E quale sarebbe il compito della prudenza? Forse lo

scegliere con intelligenza i piaceri? Ammetti pure che non esista niente di più piacevole, ma che cosa si può immaginare di più

turpe? Inoltre, presso chi dice che il dolore è il sommo male, quale posto può tenere la fortezza d'animo, che è spregio dei

dolori e delle fatiche? Sebbene, difatti, in molti luoghi Epicuro parli, come egli dice, con sufficiente forza d'animo del

dolore, non bisogna, tuttavia, considerare quello che dice, ma quello che sarebbe logico dicesse chi ha limitato il bene al

piacere e il male al dolore; ad esempio, se volessi ascoltarlo mentre parla della continenza e della temperanza, è vero che ne

parla a lungo in molti luoghi, ma "l'acqua ristagna" come si dice; difatti, come potrebbe lodare la temperanza chi ripone il

sommo bene nel piacere? La temperanza è nemica delle passioni sensuali, mentre esse sono seguaci convinte dei

piacere.

Paragrafo 118
Eppure in questi tre tipi di virtù essi si destreggiano con una

certa abilità, in qualunque modo possibile: introducono (nel loro sistema) la prudenza come la scienza che somministra i

piaceri e allontana i dolori. Concedono un posto in qualche modo anche alla fortezza d'animo, nell'insegnare il mezzo per

disprezzare la morte e tollerare il dolore. Tirano in ballo anche la temperanza, invero non nel modo più facile, ma tuttavia in

qualunque modo possono; dicono, infatti, che la grandezza del piacere trova il suo limite nell'assenza del dolore. Vacilla o

piuttosto è a terra la giustizia, e cosi tutte le virtù che si distinguono nella comunanza e nella società del genere umano.

Non può esistere, difatti, né bontà, né generosità, né affabilità e tanto meno l'amicizia, se esse non sono ricercate di per

sé stesse, ma commisurate al piacere e all'utilità.

Paragrafo 119
Riassumiamo,

dunque, in breve. Come abbiamo provato che non esiste utilità contraria all'onestà, cosi diciamo che ogni piacere dei sensi è

contrario all'onestà. Tanto più ritengo che debbano essere biasimati Callifonte e Dinomaco, che credettero di eliminare la

controversia, unendo il piacere con l'onestà, il che significa, all'incirca, accoppiare gli animali con l'uomo; l'onestà

non ammette questo connubio, lo spregia e lo respinge. Né, in verità, il fine del bene e del male, che deve essere semplice,

può essere costituito dalla mescolanza e dal contemperamento di cose molto dissimili. Ma di questo - trattandosi di una

questione importante - parleremo a lungo in un'altra occasione; ora torniamo

all'assunto.

Paragrafo 120
In qual modo, dunque, vada risolta la questione nei casi

in cui l'utilità apparente è in contrasto con l'onestà, è stato sufficientemente trattato sopra. Se, poi, si dirà che anche

il piacere ha un'apparenza di utilità, esso non può avere alcun punto di contatto con l'onestà. Per concedere, difatti,

qualche cosa al piacere, forse esso avrà un qualche carattere di condimento, ma niente di

utile.

Paragrafo 121
Tu ricevi da parte di tuo padre, o figlio Marco, un dono grande,

a parer mio, ma il cui valore dipenderà dalla maniera con cui tu l'accetterai. E' vero che dovrai accogliere questi tre libri

come ospiti tra i trattati di Cratippo; ma, come avresti potuto udire anche me qualche volta, se fossi venuto ad Atene - e

l'avrei fatto, se la patria non mi avesse richiamato con chiara voce mentre mi trovavo a metà viaggio - cosi, dal momento che

questi volumi ti portano la mia voce, dedicherai ad essi il tempo che potrai, ma ne potrai quanto ne vorrai. Quando mi

accorgerò che tu trai godimento da questo tipo di dottrina, allora con te discorrerà in tua presenza tra poco, come spero, e di

lontano finché sarai assente. Stammi bene, mio Cicerone, e convinciti che mi stai moltissimo a cuore, e lo sarai ancora di più,

se trarrai godimento da questi ammonimenti e precetti.

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