De Officiis, Libro 3, Par. da 41 a 45 - Studentville

De Officiis, Libro 3, Par. da 41 a 45

Paragrafo 41
At in eo rege qui urbem

condidit non item. Species enim utilitatis animum pepulit eius; cui cum visum esset utilius solum quam cum altero regnare

fratrem interemit. Omisit hic et pietatem et humanitatem ut id quod utile videbatur neque erat assequi posset et tamen muri

causa opposuit speciem honestatis nec probabilem nec sane idoneam. Peccavit igitur pace vel Quirini vel Romuli

dixerim.

Paragrafo 42
Nec tamen nostrae nobis utilitates omittendae sunt aliisque

tradendae cum his ipsi egeamus sed suae cuique utilitati quod sine alterius iniuria fiat serviendum est. Scite Chrysippus ut

multa “qui stadium inquit currit eniti et contendere debet quam maxime possit ut vincat supplantare eum quicum certet aut manu

depellere nullo modo debet; sic in vita sibi quemque petere quod pertineat ad usum non iniquum est alteri deripere ius non

est”.

Paragrafo 43
Maxime autem perturbantur officia in amicitiis quibus et non

tribuere quod recte possis et tribuere quod non sit aequum contra officium est. Sed huius generis totius breve et non difficile

praeceptum est. Quae enim videntur utilia honores divitiae voluptates cetera generis eiusdem haec amicitiae numquam anteponenda

sunt. At neque contra rem publicam neque contra ius iurandum ac fidem amici causa vir bonus faciet ne si iudex quidem erit de

ipso amico; ponit enim personam amici cum induit iudicis. Tantum dabit amicitiae ut veram amici causam esse malit ut orandae

litis tempus quoad per leges liceat accomodet.

Paragrafo 44
Cum vero iurato sententia

dicendast meminerit deum se adhibere testem id est ut ego arbitror mentem suam qua nihil homini dedit deus ipse divinius.

Itaque praeclarum a maioribus accepimus morem rogandi iudicis si eum teneremus qvae salva fide facere possit. Haec rogatio ad

ea pertinet quae paulo ante dixi honeste amico a iudice posse concedi. Nam si omnia facienda sint quae amici velint non

amicitiae tales sed coniurationes putandae sint.

Paragrafo 45
Loquor autem de

communibus amicitiis; nam in sapientibus viris perfectisque nihil potest esse tale. Damonem et Phintiam Pythagoreos ferunt hoc

animo inter se fuisse ut cum eorum alteri Dionysius tyrannus diem necis destinavisset et is qui morti addictus esset paucos

sibi dies commendandorum suorum causa postulavisset vas factus est alter eius sistendi ut si ille non revertisset moriendum

esset ipsi. Qui cum ad diem se recepisset admiratus eorum fidem tyrannus petivit ut se ad amicitiam tertium

adscriberent.

Versione tradotta

Paragrafo 41
Ma nel caso

del re fondatore della città la cosa andò diversamente; il suo animo fu spinto dall'apparenza dell'utile: poiché gli era

sembrato più utile regnare da solo piuttosto che con un altro, uccise il fratello. Egli mise da parte affetto ed umanità, per

poter conseguire quanto sembrava utile e non lo era, e tuttavia tirò in ballo il pretesto del muro, un'apparenza d'onestà né

approvabile né abbastanza idonea. Commise, dunque, una colpa, potrei dirlo con buona pace di Quirino o di

Romolo.

Paragrafo 42
Non dobbiamo, tuttavia, trascurare i nostri interessi e affidarli

agli altri, quando noi stessi ne abbiamo bisogno, ma ciascuno deve preoccuparsi della propria utilità, se ciò avviene senza

recare ingiustizia ad altri. Dice bene Erisippo, come al solito:
"Chi corre nello stadio, deve sforzarsi e lottare quanto

più gli è possibile per vincere, ma non deve assolutamente sgambettare o allontanare con la mano il suo rivale: allo stesso

modo nella vita non è ingiusto che ciascuno ricerchi ciò che riguarda le sue necessità, ma non è consentito sottrarlo ad un

altro".

Paragrafo 43
In modo particolare, poi, c'è confusione tra i doveri nelle

amicizie, perché è contrario al dovere non concedere agli amici quello che si potrebbe dare giustamente e concedere loro quanto

non sarebbe giusto. Ma per tutta questa specie di casi c'è una regola breve e semplice: ciò che sembra utile, onori,

ricchezze, piaceri ed altre cose simili, non deve essere mai anteposto all'amicizia. Ma un uomo onesto non compirà mai, per un

amico, un'azione contraria allo Stato o a un giuramento o alla parola data, neanche se dovrà giudicare lo stesso amico, perché

nell'indossare i panni di giudice deporrà quelli di amico. Concederà solo all'amicizia di preferire che la causa dell'amico

sia giusta, di accordargli, entro i limiti della legge, il tempo occorrente per difendere la sua

causa.

Paragrafo 44
Quando, però, dovrà pronunziare la propria sentenza sotto

giuramento, si ricordi che prende a testimone la divinità, cioè, come io penso, la sua coscienza, della quale niente di più

divino il dio stesso ha dato agli uomini. Pertanto ci è stata tramandata dai nostri antenati una formula bellissima, se ad essa

ci attenessimo, per chiedere al giudice "quello che egli possa fare, senza turbare la sua coscienza". Questa richiesta riguarda

quello che, poco fa, ho detto che poteva essere concesso onestamente da un giudice all'amico; giacché se si dovesse fare tutto

ciò che vogliono gli amici, non tali dovrebbero ritenersi le amicizie, ma congiure.

Paragrafo

45
Parlo delle amicizie comuni; tra gli uomini saggi e perfetti non può esserci, nulla di simile. Si dice che i

Pitagorici Damone e Finzia furono talmente legati tra di loro che, avendo il tiranno Dionisio fissato il giorno dell'

esecuzione per uno di essi, e avendo il condannato a morte chiesto pochi giorni per affidare i suoi alle cure di qualcuno,

l'altro si fece garante della comparizione dell'amico, con la condizione che, se questi non fosse ritornato, egli sarebbe

stato ucciso; l'amico tornò il giorno stabilito, e Dionisio, pieno d'ammirazione per la loro lealtà, chiese d'essere ammesso

nella loro amicizia come terzo.

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