Eneide, Libro 3, traduzione vv. 13-68 - Studentville

Eneide, Libro 3, traduzione vv. 13-68

Terra procul vastis colitur Mavortia campis
Thraces arant acri quondam regnata Lycurgo,
hospitium

antiquum Troiae sociique penates
dum fortuna fuit. feror huc et litore curvo
moenia prima loco fatis ingressus

iniquis
Aeneadasque meo nomen de nomine fingo.
sacra Dionaeae matri divisque ferebam
auspicibus coeptorum operum,

superoque nitentem
caelicolum regi mactabam in litore taurum.
forte fuit iuxta tumulus, quo cornea summo
virgulta et

densis hastilibus horrida myrtus.
accessi viridemque ab humo convellere silvam
conatus, ramis tegerem ut frondentibus

aras,
horrendum et dictu video mirabile monstrum.
nam quae prima solo ruptis radicibus arbos
vellitur, huic

atro liquuntur sanguine guttae
et terram tabo maculant. mihi frigidus horror
membra quatit gelidusque coit formidine

sanguis.
rursus et alterius lentum convellere vimen
insequor et causas penitus temptare latentis;
ater et alterius

sequitur de cortice sanguis.
multa movens animo Nymphas venerabar agrestis
Gradivumque patrem, Geticis qui praesidet

arvis,
rite secundarent visus omenque levarent.
tertia sed postquam maiore hastilia nisu
adgredior genibusque

adversae obluctor harenae,
eloquar an sileam? gemitus lacrimabilis imo
auditur tumulo et vox reddita fertur ad auris:

‘quid miserum, Aenea, laceras? iam parce sepulto,
parce pias scelerare manus. non me tibi Troia
externum tulit

aut cruor hic de stipite manat.
heu fuge crudelis terras, fuge litus avarum:
nam Polydorus ego. hic confixum ferrea

texit
telorum seges et iaculis increvit acutis.’
tum vero ancipiti mentem formidine pressus
obstipui steteruntque

comae et vox faucibus haesit.
Hunc Polydorum auri quondam cum pondere magno
infelix Priamus furtim mandarat alendum

Threicio regi, cum iam diffideret armis
Dardaniae cingique urbem obsidione videret.
ille, ut opes fractae

Teucrum et Fortuna recessit,
res Agamemnonias victriciaque arma secutus
fas omne abrumpit: Polydorum obtruncat, et auro

vi potitur. quid non mortalia pectora cogis,
auri sacra fames. postquam pavor ossa reliquit,
delectos populi ad

proceres primumque parentem
monstra deum refero, et quae sit sententia posco.
omnibus idem animus, scelerata excedere

terra,
linqui pollutum hospitium et dare classibus Austros.
ergo instauramus Polydoro funus, et ingens
aggeritur

tumulo tellus; stant Manibus arae
caeruleis maestae vittis atraque cupresso,
et circum Iliades crinem de more solutae;

inferimus tepido spumantia cymbia lacte
sanguinis et sacri pateras, animamque sepulcro
condimus et magna supremum

voce ciemus.

Versione Tradotta

Una

terra Mavorzia lontano dalle vaste pianure è abitata,
l’arano i Traci, governata un tempo dal duro Licurgo,

antica

ospitalità e penati alleati di Troia

finché ci fu fortuna. Sono portato qui e sul lido ricurvo

fondo le prime

mura, entrato con fati avversi,

e dal mio nome formo il nome di Eneadi.

Portavo doni sacri alla madre dionea ed

ai divini

auspici delle imprese iniziate, ed al celeste re

dei dei offrivo un toro splendente sul

lido.

C’era per caso un’altura, sulla cui sommità virgulti

di corniolo ed un mirto irto di fitte lance.

Mi

avvicinai tentando di strappare da terra una verde

pianta, per coprire di rami frondosi gli altari,

e vedo un

prodigio spaventoso e mirabile a dirsi.

Infatti la pianta che per prima, rotte le radici,

è divelta, a questa si

sciolgono gocce di nero sangue

e macchiano la terra di marcio. Un freddo fremito

mi scuote le membra ed il sangue

gelido scorre con terrore.

Di nuovo proseguo a strappare il flessibile rametto di un’altra

e scoprire del tutto

le cause latenti;

nero sangue esce anche dalla corteccia dell’altra.

Meditando molto in cuore veneravo le Ninfe

agresti

ed il padre Gradivo, che protegge i campi Getici,

favorevolmente assecondassero le visioni e togliessero

il presagio.

Ma dopo che con maggior sforzo afferro il terzo rametto

e con le ginocchia lotto con la sabbia

avversa,

– parlare o tacere?- si sente dalla profondità dell’altura

un gemito lacrimevole e la frase data sale

alle orecchie:

“Perchè, Enea, torturi un infelice? orma risparmia un sepolto,

risparmia di macchiare le pie mani.

Troia non mi pose

estraneo a te o questo sangue non emana da un legno.

Ahimè fuggi terre crudeli, fuggi un lido

avido:

io sono Polidoro. Qui trafitto mi coprì una messe ferrea

di dardi e crebbe in acute lance.”

Allora

davvero oppressa la mente da dubbioso terrore

stupii si drizzarono i capelli e la frase si bloccò nella

gola.

Questo Polidoro un tempo lo sventurato Priamo

l’aveva affidato da crescere al re Tracio di

nascosto

con una gran quantità d’oro, diffidando orma per le armi

della Dardania e vedendo che la città era cinta

d’assedio.

Quello, come furono rotte le forze dei Teucri e la fortunata

andata, seguendo le sorti d’Agamennone e

le armi vincitrici

rompe ogni norma: sgozza Polidoro e s’impossesso dell’oro

con la violenza. A cosa non spingi i

cuori mortali,

maledetta fame di oro. Dopo che la paura lasciò le ossa,

riferisco i prodigi degli dei ai capi

scelti del popolo e prima

al padre, e chiedo quale sia il parere.

Per tutti una sola volontà, andarsene dalla

terra scellerata,

lasciare l’ospitalità macchiata e dare gli Austri alle flotte.

Così celebriamo il funerale per

Polidoro, e molta

terra si raccoglie per il tumulo; per i Mani si ergono gli altari

tristi per le fosche bende ed

il nero cipresso,

e le Iliadi attorno secondo il rito, sciolte la chioma;

offriamo vasi spumanti di tiepido

latte

e tazze di sangue sacro, copriamo l’anima col sepolcro

e lo chiamiamo per l’ultima volta a gran

voce.

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