Terra procul vastis colitur Mavortia campis
Thraces arant acri quondam regnata Lycurgo,
hospitium
antiquum Troiae sociique penates
dum fortuna fuit. feror huc et litore curvo
moenia prima loco fatis ingressus
iniquis
Aeneadasque meo nomen de nomine fingo.
sacra Dionaeae matri divisque ferebam
auspicibus coeptorum operum,
superoque nitentem
caelicolum regi mactabam in litore taurum.
forte fuit iuxta tumulus, quo cornea summo
virgulta et
densis hastilibus horrida myrtus.
accessi viridemque ab humo convellere silvam
conatus, ramis tegerem ut frondentibus
aras,
horrendum et dictu video mirabile monstrum.
nam quae prima solo ruptis radicibus arbos
vellitur, huic
atro liquuntur sanguine guttae
et terram tabo maculant. mihi frigidus horror
membra quatit gelidusque coit formidine
sanguis.
rursus et alterius lentum convellere vimen
insequor et causas penitus temptare latentis;
ater et alterius
sequitur de cortice sanguis.
multa movens animo Nymphas venerabar agrestis
Gradivumque patrem, Geticis qui praesidet
arvis,
rite secundarent visus omenque levarent.
tertia sed postquam maiore hastilia nisu
adgredior genibusque
adversae obluctor harenae,
eloquar an sileam? gemitus lacrimabilis imo
auditur tumulo et vox reddita fertur ad auris:
‘quid miserum, Aenea, laceras? iam parce sepulto,
parce pias scelerare manus. non me tibi Troia
externum tulit
aut cruor hic de stipite manat.
heu fuge crudelis terras, fuge litus avarum:
nam Polydorus ego. hic confixum ferrea
texit
telorum seges et iaculis increvit acutis.’
tum vero ancipiti mentem formidine pressus
obstipui steteruntque
comae et vox faucibus haesit.
Hunc Polydorum auri quondam cum pondere magno
infelix Priamus furtim mandarat alendum
Threicio regi, cum iam diffideret armis
Dardaniae cingique urbem obsidione videret.
ille, ut opes fractae
Teucrum et Fortuna recessit,
res Agamemnonias victriciaque arma secutus
fas omne abrumpit: Polydorum obtruncat, et auro
vi potitur. quid non mortalia pectora cogis,
auri sacra fames. postquam pavor ossa reliquit,
delectos populi ad
proceres primumque parentem
monstra deum refero, et quae sit sententia posco.
omnibus idem animus, scelerata excedere
terra,
linqui pollutum hospitium et dare classibus Austros.
ergo instauramus Polydoro funus, et ingens
aggeritur
tumulo tellus; stant Manibus arae
caeruleis maestae vittis atraque cupresso,
et circum Iliades crinem de more solutae;
inferimus tepido spumantia cymbia lacte
sanguinis et sacri pateras, animamque sepulcro
condimus et magna supremum
voce ciemus.
Versione Tradotta
Una
terra Mavorzia lontano dalle vaste pianure è abitata,
l’arano i Traci, governata un tempo dal duro Licurgo,
antica
ospitalità e penati alleati di Troia
finché ci fu fortuna. Sono portato qui e sul lido ricurvo
fondo le prime
mura, entrato con fati avversi,
e dal mio nome formo il nome di Eneadi.
Portavo doni sacri alla madre dionea ed
ai divini
auspici delle imprese iniziate, ed al celeste re
dei dei offrivo un toro splendente sul
lido.
C’era per caso un’altura, sulla cui sommità virgulti
di corniolo ed un mirto irto di fitte lance.
Mi
avvicinai tentando di strappare da terra una verde
pianta, per coprire di rami frondosi gli altari,
e vedo un
prodigio spaventoso e mirabile a dirsi.
Infatti la pianta che per prima, rotte le radici,
è divelta, a questa si
sciolgono gocce di nero sangue
e macchiano la terra di marcio. Un freddo fremito
mi scuote le membra ed il sangue
gelido scorre con terrore.
Di nuovo proseguo a strappare il flessibile rametto di un’altra
e scoprire del tutto
le cause latenti;
nero sangue esce anche dalla corteccia dell’altra.
Meditando molto in cuore veneravo le Ninfe
agresti
ed il padre Gradivo, che protegge i campi Getici,
favorevolmente assecondassero le visioni e togliessero
il presagio.
Ma dopo che con maggior sforzo afferro il terzo rametto
e con le ginocchia lotto con la sabbia
avversa,
– parlare o tacere?- si sente dalla profondità dell’altura
un gemito lacrimevole e la frase data sale
alle orecchie:
“Perchè, Enea, torturi un infelice? orma risparmia un sepolto,
risparmia di macchiare le pie mani.
Troia non mi pose
estraneo a te o questo sangue non emana da un legno.
Ahimè fuggi terre crudeli, fuggi un lido
avido:
io sono Polidoro. Qui trafitto mi coprì una messe ferrea
di dardi e crebbe in acute lance.”
Allora
davvero oppressa la mente da dubbioso terrore
stupii si drizzarono i capelli e la frase si bloccò nella
gola.
Questo Polidoro un tempo lo sventurato Priamo
l’aveva affidato da crescere al re Tracio di
nascosto
con una gran quantità d’oro, diffidando orma per le armi
della Dardania e vedendo che la città era cinta
d’assedio.
Quello, come furono rotte le forze dei Teucri e la fortunata
andata, seguendo le sorti d’Agamennone e
le armi vincitrici
rompe ogni norma: sgozza Polidoro e s’impossesso dell’oro
con la violenza. A cosa non spingi i
cuori mortali,
maledetta fame di oro. Dopo che la paura lasciò le ossa,
riferisco i prodigi degli dei ai capi
scelti del popolo e prima
al padre, e chiedo quale sia il parere.
Per tutti una sola volontà, andarsene dalla
terra scellerata,
lasciare l’ospitalità macchiata e dare gli Austri alle flotte.
Così celebriamo il funerale per
Polidoro, e molta
terra si raccoglie per il tumulo; per i Mani si ergono gli altari
tristi per le fosche bende ed
il nero cipresso,
e le Iliadi attorno secondo il rito, sciolte la chioma;
offriamo vasi spumanti di tiepido
latte
e tazze di sangue sacro, copriamo l’anima col sepolcro
e lo chiamiamo per l’ultima volta a gran
voce.
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