Eneide, Libro 3, traduzione vv. 209-269 - Studentville

Eneide, Libro 3, traduzione vv. 209-269

Servatum ex undis Strophadum me litora primum
excipiunt. Strophades Graio stant nomine dictae
insulae Ionio in

magno, quas dira Celaeno
Harpyiaeque colunt aliae, Phineia postquam
clausa domus mensasque metu liquere priores.

tristius haud illis monstrum, nec saevior ulla
pestis et ira deum Stygiis sese extulit undis.
virginei volucrum

vultus, foedissima ventris
proluvies uncaeque manus et pallida semper
ora fame.
huc ubi delati portus

intravimus, ecce
laeta boum passim campis armenta videmus
caprigenumque pecus nullo custode per herbas.
inruimus

ferro et divos ipsumque vocamus
in partem praedamque Iovem; tum litore curvo
exstruimusque toros dapibusque epulamur

opimis.
at subitae horrifico lapsu de montibus adsunt
Harpyiae et magnis quatiunt clangoribus alas,

diripiuntque dapes contactuque omnia foedant
immundo; tum vox taetrum dira inter odorem.
rursum in secessu longo

sub rupe cavata
[arboribus clausam circum atque horrentibus umbris]
instruimus mensas arisque reponimus ignem;

rursum ex diverso caeli caecisque latebris
turba sonans praedam pedibus circumvolat uncis,
polluit ore dapes.

sociis tunc arma capessant
edico, et dira bellum cum gente gerendum.
haud secus ac iussi faciunt tectosque per herbam

disponunt ensis et scuta latentia condunt.
ergo ubi delapsae sonitum per curva dedere
litora, dat signum specula

Misenus ab alta
aere cavo. invadunt socii et nova proelia temptant,
obscenas pelagi ferro foedare volucris.
sed

neque vim plumis ullam nec vulnera tergo
accipiunt, celerique fuga sub sidera lapsae
semesam praedam et vestigia foeda

relinquunt.
una in praecelsa consedit rupe Celaeno,
infelix vates, rumpitque hanc pectore vocem;
‘bellum etiam

pro caede boum stratisque iuvencis,
Laomedontiadae, bellumne inferre paratis
et patrio Harpyias insontis pellere regno?

accipite ergo animis atque haec mea figite dicta,
quae Phoebo pater omnipotens, mihi Phoebus Apollo
praedixit,

vobis Furiarum ego maxima pando.
Italiam cursu petitis ventisque vocatis:
ibitis Italiam portusque intrare licebit.

sed non ante datam cingetis moenibus urbem
quam vos dira fames nostraeque iniuria caedis
ambesas subigat malis

absumere mensas.’
dixit, et in silvam pennis ablata refugit.
at sociis subita gelidus formidine sanguis

deriguit: cecidere animi, nec iam amplius armis,
sed votis precibusque iubent exposcere pacem,
sive deae seu sint

dirae obscenaeque volucres.
et pater Anchises passis de litore palmis
numina magna vocat meritosque indicit honores:

‘di, prohibete minas; di, talem avertite casum
et placidi servate pios.’ tum litore funem
deripere

excussosque iubet laxare rudentis.
tendunt vela Noti: fugimus spumantibus undis
qua cursum ventusque gubernatorque

vocabat.

Versione tradotta

Anzitutto mi accolgono, salvato dalle onde, i lidi

delle Strofadi. Le isole dette Strofadi dal nome Graio
stanno nel grande Ionio, che la crudele Celeno
e le altre

Arpie abitano, dopo che fu chiusa la casa
Fineo e per paura lasciarono le prime mense.
Non c’è mostro più funesto di

quelle, né alcuna peste
peggiore ed ira degli dei si alzò dalle onde Stigie.
Virginei volti di uccelli, fetidissimo

flusso
di ventre e mani uncinate e facce sempre pallide
per fame.
Come qui portati entrammo nei porti, ecco
vediamo

grassi armenti di buoi qua e là nelle piane
ed un gregge di capre per l’erba senza custode.
Ci buttiamo col ferro ed

invochiamo gli dei e lo stesso
Giove per la parte ed il bottino; poi sulla spiaggia ricurva
collochiamo letti e

banchettiamo con cibi abbondanti.
Ed improvvise con orribile volata dai monti le Arpie
si presentano e scuotono le ali

con grandi schiamazzi,
saccheggiano le vivande e con l’immondo contatto sporcano
tutto; poi lo stridio crudele tra l’

orribile odore.
Di nuovo in un lungo riparo sotto una rupe incavata
[chiusa attorno da alberi ed ombre raggelanti]

prepariamo le mense e poniamo sugli altari il fuoco.
Di nuovo da parte diversa del cielo e da ciechi nascondigli
la

turba rimbombante vola attorno alla preda con zampe adunche,
con la bocca sporcò i cibi: allora ordino ai compagni che

prendano
le armi, e la guerra è da combattere con gente crudele.
Non diversamente dall’ordine agiscono e dispongono per

l’erba
le spade coperte e nascondono gli scudi latenti.
Perciò quando scendendo fecero un frastuono lungo i

lidi
ricurvi, Miseno dà il segnale dall’alta vedetta
col bronzo cavo. I compagni attaccano e tentano strani

scontri,
colpire col ferro gli orribili uccelli del mare.
Ma non ricevono alcun colpo alle penne ne ferite
al dorso,

e con celere fuga volando sotto le stelle
lasciano semidivotata la mensa ed orme schifose.
Sola Celeno si fermò su

altissima rupe,
funesta indovina, esplode dal petto questa frase:
“Pure una guerra, Laomenziadi, vi preparate forse a

scatenare
oltre la strage di buoi e giovenchi ammazzati, una guerra,
e cacciare dal regno paterno le incolpevoli

Arpie.
Accoglietele dunque ficca
tele in cuore queste mie parole,
che il padre onnipotente predisse a Febo, e

Apollo Febo
a me, io la più grande delle Furie ve le svelo.
Cercate con la rotta l’Italia e la invocate coi

venti:
andrete in Italia e sarà permesso entrare nei porti.
Ma non cingerete con mura la città data prima che
la fame

crudele e l’offesa del nostro attacco
vi costringa per i mali a consumare le mense divorate.”
Disse, e levatasi con le

ali si rifugiò nella selva.
Ma sangue gelido per la paura il sangue si ghiacciò
ai compagni: i cuori crollarono, né più

ormai con armi,
ma con voti e preghiere vogliono chiedere pace,
sia che siano dee che orribili e crudeli uccelli.
Ed

il padre Anchise, stese le palme, dal lido
chiama le grandi potenze e indice riti dovuti:
“O dei, allontanate le minacce;

dei, togliete tale sorte
e voi, sereni, salvate i pii.”Poi ordina di levare la fune
dal lido e allentare le corde

srotolate.
I Noti tendono le vele: fuggiamo sulle onde spumeggianti,
dove e vento e nocchiero chiamava la rotta.

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