Eneide, Libro 3, traduzione vv. 583-654 - Studentville

Eneide, Libro 3, traduzione vv. 583-654

Noctem illam tecti silvis immania
perferimus,

nec quae sonitum det causa videmus.
nam neque erant astrorum ignes nec lucidus aethra
siderea polus, obscuro sed nubila

caelo,
et lunam in nimbo nox intempesta tenebat.
Postera iamque dies primo surgebat Eoo
umentemque Aurora polo

dimoverat umbram,
cum subito e silvis macie confecta suprema
ignoti nova forma viri miserandaque cultu
procedit

supplexque manus ad litora tendit.
respicimus. dira inluvies immissaque barba,
consertum tegimen spinis: at cetera

Graius,
et quondam patriis ad Troiam missus in armis.
isque ubi Dardanios habitus et Troia vidit
arma procul,

paulum aspectu conterritus haesit
continuitque gradum; mox sese ad litora praeceps
cum fletu precibusque tulit: ‘per

sidera testor,
per superos atque hoc caeli spirabile lumen, 3.600
tollite me, Teucri. quascumque abducite terras:

hoc sat erit. scio me Danais e classibus unum
et bello Iliacos fateor petiisse penatis.
pro quo, si sceleris tanta

est iniuria nostri,
spargite me in fluctus vastoque immergite ponto;
si pereo, hominum manibus periisse iuvabit.’

dixerat et genua amplexus genibusque volutans
haerebat. qui sit fari, quo sanguine cretus,
hortamur, quae deinde

agitet fortuna fateri.
ipse pater dextram Anchises haud multa moratus
dat iuveni atque animum praesenti pignore firmat.

ille haec deposita tandem formidine fatur:
‘sum patria ex Ithaca, comes infelicis Ulixi,
nomine Achaemenides,

Troiam genitore Adamasto
paupere mansissetque utinam fortuna. profectus.
hic me, dum trepidi crudelia limina linquunt,

immemores socii vasto Cyclopis in antro
deseruere. domus sanie dapibusque cruentis,
intus opaca, ingens. ipse

arduus, altaque pulsat
sidera di talem terris avertite pestem.
nec visu facilis nec dictu adfabilis ulli;

visceribus miserorum et sanguine vescitur atro.
vidi egomet duo de numero cum corpora nostro
prensa manu magna

medio resupinus in antro
frangeret ad saxum, sanieque aspersa natarent
limina; vidi atro cum membra fluentia tabo

manderet et tepidi tremerent sub dentibus artus –
haud impune quidem, nec talia passus Ulixes
oblitusve sui est

Ithacus discrimine tanto.
nam simul expletus dapibus vinoque sepultus
cervicem inflexam posuit, iacuitque per antrum

immensus saniem eructans et frusta cruento
per somnum commixta mero, nos magna precati
numina sortitique vices una

undique circum
fundimur, et telo lumen terebramus acuto
ingens quod torva solum sub fronte latebat,
Argolici clipei

aut Phoebeae lampadis instar,
et tandem laeti sociorum ulciscimur umbras.
sed fugite, o miseri, fugite atque ab litore

funem
rumpite.
nam qualis quantusque cavo Polyphemus in

antro
lanigeras claudit pecudes atque ubera pressat,
centum alii curva haec habitant ad litora vulgo
infandi

Cyclopes et altis montibus errant.
tertia iam lunae se cornua lumine complent
cum vitam in silvis inter deserta ferarum

lustra domosque traho vastosque ab rupe Cyclopas
prospicio sonitumque pedum vocemque tremesco.
victum infelicem,

bacas lapidosaque corna,
dant rami, et vulsis pascunt radicibus herbae.
omnia conlustrans hanc primum ad litora classem

conspexi venientem. huic me, quaecumque fuisset,
addixi: satis est gentem effugisse nefandam.
vos animam hanc

potius quocumque absumite leto.”

Versione tradotta

Quella notte coperti nei boschi sopportiamo orribili
prodigi, né vediamo quale causa

dia rumore.
Infatti non c’erano i fuochi degli astri né il cielo lucido
di etere stellare, ma nubi nell’oscuro

cielo,
ed una notte fosca teneva la luna in un nembo.
Il giorno seguente sorgeva appena e l’Aurora
aveva cacciato dal

cielo orientale l’umida ombra,
quando d’improvviso dai boschi una strana forma
colpita da estrema macilenza e miserabile

d’aspetto,
di un uomo sconosciuto avanza e sulla spiaggia tende supplice
le mani. Lo osserviamo. Crudele sporcizia e

barba incolta,
un vestiario tenuto da spine: ma per il resto Graio,
ed un tempo mandato a Troia in armi patrie.
Ma

egli quando vide lontano aspetti Dardanici
ed arme troiane, un poco atterrito alla vista esitò
e trattenne il passo; poi

a precipizio sul lido
si portò con pianto e preghiere: “Per le stelle scongiuro,
per i celesti e per questo respirabile

luce del cielo
prendetemi, Teucri, conducetemi in qualsiasi terra
Questo basterà. So e confesso che io, uno delle

flotte
Danae con la guerra ho assalito i Penati iliaci.
E per questo, se sì grande è l’oltraggio del nostro

delitto,
buttatemi tra i flutti e immergetemi nel vasto mare;
se muoio, sarà dolce esser morti per mani di

uomini.
Aveva detto ed abbracciate le ginocchia prostrandosi
si avvinghiava alle ginocchia.Esortiamo a dire chi sia, da

quale
stirpe nato, a dichiarare quale sorte lo perseguiti.
Lo stesso padre Anchise, indugiando non molto, dà la

destra
al giovane e rassicura l’animo con immediata garanzia.
Egli finalmente, deposta la paura, parla così:
“Sono di

Itaca, mia patria, compagno dell’infelice Ulisse,
di nome Achemenide, partito per Troia, essendo il genitore
Adamasto

povero, oh fosse rimasta la sorte.
Qui mi lasciarono i compagni, mentre impauriti abbandonavano
le crudeli soglie,

immemori, nella vasta spelonca del Ciclope.
Una casa buia dentro, enorme, con marciume e cibi
insanguinati. Lui alto e

tocca le stelle eccelse, o dei
allontanate tale peste dalle terre.
Né gradevole alla vista né cortese di

parola con qualcuno;
si ciba delle viscere e del nero sangue di infelici.
Lo vidi io quando disteso in mezzo all’antro

spaccava
con la grande mano due individui presi dal nostro gruppo,
e le porte s’inondavano di marciume spruzzato;
lo

vidi quando mangiava le membra grondanti di nero
putridume e gli arti tiepidi tremavano sotto i denti.
Senz’altro no

impunemente, né Ulisse sopportò tali cose
o si scordò di sé in sì grande pericolo.
Infatti appena riempito di cibi e

sepolto nel vino
posò il collo piegato e giacque per l’antro, immenso,
eruttando marciume e pezzi mescolati a vino

insanguinato
nel sonno, noi, pregate le grandi potenze
sorteggiate le parti insieme ci allarghiamo
attorno e

trivelliamo con palo aguzzo l’enorme
occhio, che solo si celava sotto la fronte torva,
come scudo Argolico lampada Febea

e finalmente
lieti vendichiamo le ombre dei compagni.
Ma fuggite, o miseri, fuggite e dal lido rompete
la fune.

Infatti tale e sì grande Polifemo chiude nel cavo
antro le

lanute pecore e preme le mammelle,
cento altri orrendi Ciclopi abitano presso questi curvi lidi
in

gruppo e vagano per gli alti monti.
Ormai tre corna della luna si riempiono di luce
da quando nei boschi tra deserte tane

di belve
vaste case trascino la vita ed osservo dalla roccia
i Ciclopi e temo il rumore dei piedi e la voce.
I rami

danno vitto sterile, bacche e dure cornie
e le erbe, strappate le radici nutrono.
Osservando tutto anzitutto ho visto

questa flotta
che giungeva ai lidi. Mi affidai a questa, qualunque
fosse stata: è sufficiente esser sfuggito a gente

sacrilega
Voi piuttosto toglietemi questa vita con qualsiasi morte.”

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