Ab urbe condita - Libro 4, Par. 2 - Studentville

Ab urbe condita - Libro 4, Par. 2

Eodem tempore et consules senatum in tribunum et tribunus populum in consules incitabat. Negabant consules iam ultra ferri

posse furores tribunicios; ventum iam ad finem esse; domi plus belli concitari quam foris. Id adeo non plebis quam patrum neque

tribunorum magis quam consulum culpa accidere. Cuius rei praemium sit in civitate, eam maximis semper auctibus crescere; sic

pace bonos, sic bello fieri. Maximum Romae praemium seditionum esse; ideo singulis universisque semper honori fuisse.

Reminiscerentur quam maiestatem senatus ipsi a patribus accepissent, quam liberis tradituri essent, vel quem ad modum plebs

gloriari posset auctiorem amplioremque esse. Finem ergo non fieri nec futuram donec quam felices seditiones tam honorati

seditionum auctores essent. Quas quantasque res C. Canuleium adgressum! Conluvionem gentium, perturbationem auspiciorum

publicorum privatorumque adferre, ne quid sinceri, ne quid incontaminati sit, ut discrimine omni sublato nec se quisquam nec

suos noverit. Quam enim aliam vim conubia promiscua habere nisi ut ferarum prope ritu volgentur concubitus plebis patrumque? Ut

qui natus sit ignoret, cuius sanguinis, quorum sacrorum sit; dimidius patrum sit, dimidius plebis, ne secum quidem ipse

concors. Parum id videri quod omnia divina humanaque turbentur: iam ad consulatum volgi turbatores accingi. Et primo ut alter

consul ex plebe fieret, id modo sermonibus temptasse; nunc rogari ut seu ex patribus seu ex plebe velit populus consules creet.

Et creaturos haud dubie ex plebe seditiosissimum quemque; Canuleios igitur Iciliosque consules fore. Ne id Iuppiter optimus

maximus sineret regiae maiestatis imperium eo recidere; et se miliens morituros potius quam ut tantum dedecoris admitti

patiantur. Certum habere maiores quoque, si divinassent concedendo omnia non mitiorem in se plebem, sed asperiorem alia ex

aliis iniquiora postulando cum prima impetrasset futuram, primo quamlibet dimicationem subituros fuisse potius quam eas leges

sibi imponi paterentur. Quia tum concessum sit de tribunis, iterum concessum esse; finem non fieri posse si in eadem civitate

tribuni plebis et patres essent; aut hunc ordinem aut illum magistratum tollendum esse, potiusque sero quam nunquam obviam

eundum audaciae temeritatique. Illine ut impune primo discordias serentes concitent finitima bella, deinde adversus ea quae

concitaverint armari civitatem defendique prohibeant, et cum hostes tantum non arcessierint, exercitus conscribi adversus

hostes non patiantur, sed audeat Canuleius in senatu proloqui se nisi suas leges tamquam victoris patres accipi sinant dilectum

haberi prohibiturum? Quid esse aliud quam minari se proditurum patriam, oppugnari atque capi passurum! Quid eam vocem animorum,

non plebi Romanae, sed Volscis et Aequis et Veientibus allaturam! Nonne Canuleio duce se speraturos Capitolium atque arcem

scandere posse? Nsii patribus tribuni cum iure ac maiestate adempta animos etiam eripuerint, consules paratos esse duces prius

adversus scelus civium quam adversus hostium arma.

Versione tradotta

Nello stesso tempo i consoli istigavano il senato contro il

tribuno, e il tribuno il popolo contro i consoli. Questi ultimi sostenevano che non era possibile tollerare più a lungo i colpi

di testa dei tribuni: si era ormai arrivati a toccare il limite estremo e c'erano più focolai di guerra all'interno della

città che all'esterno. E se adesso le cose stavano così, la colpa era tanto della plebe quanto del patriziato e tanto dei

tribuni quanto dei consoli. In ogni paese si sviluppa col massimo incremento ciò che viene ricompensato: così, sia in pace che

in guerra, si formano i buoni cittadini. Ma a Roma ciò che aveva maggiore successo erano le sedizioni: da sempre esse tornavano

ad onore sia dei singoli che della moltitudine. Che ricordassero la maestà del senato quale l'avevano ricevuta dai loro

padri e quale l'avrebbero consegnata ai figli, e come invece la plebe potesse vantarsi di aver accresciuto la propria

autorità e importanza. Né si intravedeva una fine a questo, nemmeno per il futuro, finché le sedizioni avessero continuato ad

aver fortuna e i loro autori avessero continuato a ricevere tanti riconoscimenti. Quali iniziative aveva preso Gaio Canuleio, e

quanto importanti! Cercava di mescolare il sangue delle famiglie aristocratiche, di creare confusione negli auspici pubblici e

privati, perché niente di puro, niente di incontaminato si salvasse, così che, soppressa ogni distinzione, nessuno potesse

essere in grado di riconoscere se stesso e i suoi. Perché quale altro effetto possono avere i matrimoni misti, se non la

diffusione di accoppiamenti, come tra animali, di patrizi e plebei? Così i figli nascendo non avrebbero saputo qual era il loro

sangue, quale il loro culto; sarebbero stati per metà patrizi e per metà plebei, senza trovare accordo neppure dentro di loro.

Ma che fosse completamente sconvolto l'ordine delle cose divine e di quelle umane sembrava ancora poco: i sobillatori del

volgo puntavano già al consolato. E mentre in un primo tempo avevano cercato di ottenere solo coi discorsi che uno dei consoli

fosse plebeo, ora presentavano la proposta che fosse il popolo a eleggere, a suo piacimento, i consoli tra i patrizi o tra i

plebei. E senza dubbio avrebbero sempre eletto tra la plebe i più facinorosi: dunque sarebbero diventati consoli dei Canulei e

degli Icili. Ma Giove Ottimo Massimo non avrebbe permesso che una carica investita di regale maestà cadesse così in basso. Essi

sarebbero morti mille volte piuttosto di tollerare che si commettesse una simile infamia. Erano sicurissimi che anche i loro

antenati, se avessero potuto prevedere che, assecondando ogni richiesta della plebe, l'avrebbero resa non più mite ma solo

più dura, e che alle prime concessioni avrebbero fatto séguito nuove e sempre più ingiuste pretese, all'inizio avrebbero

accettato di affrontare qualsiasi scontro piuttosto che subire l'imposizione di quelle leggi. Ma siccome avevano ceduto

allora sulla questione dei tribuni, si dovette cedere altre volte. I cedimenti non potevano aver fine se nella stessa città

continuavano a coesistere tribuni della plebe e patrizi: bisognava eliminare quella classe o quella magistratura; bisognava

opporsi - meglio tardi che mai - all'arroganza e alla temerarietà. Com'era possibile che, dopo aver fatto scoppiare le

guerre con i vicini a forza di seminare zizzania, avessero poi impedito alla città di armarsi per difendersi dalle guerre che

loro avevano fatto scoppiare? O ancora che, dopo aver quasi invitato i nemici, in séguito non avessero permesso che si

arruolassero gli eserciti per affrontarli? E che Canuleio fosse così sfrontato da dichiarare in senato che se i patrizi

avessero impedito l'approvazione delle leggi da lui proposte, come se fossero quelle di un trionfatore, avrebbe impedito la

realizzazione della leva militare? Cos'altro era quella se non la minaccia di tradire il proprio paese, accettando che

subisse un attacco e finisse in mani nemiche? Quelle parole sì sarebbero state un bell'incoraggiamento, ma non per la plebe,

per Volsci, Equi e Veienti; non avrebbero forse sperato di salire fino sul Campidoglio e sulla cittadella con Canuleio alla

testa? Se insieme ai diritti e alla dignità i tribuni non avevano sottratto ai patrizi anche il coraggio, allora i consoli

erano pronti a guidare la lotta contro le scelleratezze dei concittadini, prima ancora che contro le armi dei nemici.

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