“At enim nemo post reges exactos de
plebe consul fuit. Quid postea? Nullane res nova institui debet? Et quod nondum est factum–multa enim nondum sunt facta in
novo populo,– ea ne si utilia quidem sunt fieri oportet? Pontifices, augures Romulo regnante nulli erant; ab Numa Pompilio
creati sunt. Census in civitate et discriptio centuriarum classiumque non erat; ab Ser. Tullio est facta. Consules nunquam
fuerant; regibus exactis creati sunt. Dictatoris nec imperium nec nomen fuerat; apud patres esse coepit. Tribuni plebi,
aediles, quaestores nulli erant; institutum est ut fierent. Decemuiros legibus scribendis intra decem hos annos et creauimus et
e re publica sustulimus. Quis dubitat quin in aeternum urbe condita, in immensum crescente nova imperia, sacerdotia, iura
gentium hominumque instituantur? Hoc ipsum, ne conubium patribus cum plebe esset, non decemviri tulerunt paucis his annis
pessimo publico, cum summa iniuria plebis? An esse ulla maior aut insignitior contumelia potest quam partem civitatis velut
contaminatam indignam conubio haberi? Quid est aliud quam exsilium intra eadem moenia, quam relegationem pati? Ne
adfinitatibus, ne propinquitatibus immisceamur cauent, ne societur sanguis. Quid? Hoc si polluit nobilitatem istam vestram,
quam plerique oriundi ex Albanis et Sabinis non genere nec sanguine sed per cooptationem in patres habetis, aut ab regibus
lecti aut post reges exactos iussu populi, sinceram seruare privatis consiliis non poteratis, nec ducendo ex plebe neque
vestras filias sororesque ecnubere sinendo e patribus? Nemo plebeius patriciae virgini vim adferret; patriciorum ista libido
est; nemo invitum pactionem nuptialem quemquam facere coegisset. Verum enimuero lege id prohiberi et conubium tolli patrum ac
plebis, id demum contumeliosum plebi est. Cur enim non fertis, ne sit conubium divitibus ac pauperibus? Quod privatorum
consiliorum ubique semper fuit, ut in quam cuique feminae convenisset domum nuberet, ex qua pactus esset vir domo, in
matrimonium duceret, id vos sub legis superbissimae vincula conicitis, qua dirimatis societatem civilem duasque ex una civitate
faciatis. Cur non sancitis ne vicinus patricio sit plebeius nec eodem itinere eat, ne idem conuiuium ineat, ne in foro eodem
consistat? Quid enim in re est aliud, si plebeiam patricius duxerit, si patriciam plebeius? Quid iuris tandem immutatur? Nempe
patrem sequuntur liberi. Nec quod nos ex conubio vestro petamus quicquam est, praeterquam ut hominum, ut civium numero simus,
nec vos, nisi in contumeliam ignominiamque nostram certare iuvat, quod contendatis quicquam est “.
Versione tradotta
" Ma, in realtà, dai tempi della cacciata dei re nessun plebeo è mai stato console. E allora? Non si deve introdurre nessuna
novità? E ciò che non è ancora stato fatto - e in un paese recente le cose non ancora fatte sono certo moltissime - non bisogna
farlo nemmeno se è utile? Ai tempi del regno di Romolo non esistevano né pontefici né àuguri: fu Pompilio a crearli. Non
c'era censo né divisione in centurie basata sul censo: li introdusse Servio Tullio. Non c'erano mai stati dei consoli:
furono creati dopo la cacciata dei re. Il nome e il potere del dittatore non c'erano: cominciarono a esserci al tempo dei
nostri padri. Non esistevano né tribuni della plebe né edili, né questori: si stabilì di averne. Nell'arco degli ultimi
dieci anni, abbiamo eletto decemviri incaricati di redigere le leggi e poi li abbiamo allontanati dalla repubblica. Chi
potrebbe dubitare che, in una città fondata per durare in eterno e che cresce smisuratamente, si debbano istituire nuovi
poteri, nuovi sacerdoti e nuovi diritti delle genti e dei singoli uomini? Questo stesso divieto di contrarre matrimoni tra
patrizi e plebei non lo introdussero i decemviri qualche anno or sono, causando pessimi effetti sulla comunità e danneggiando
ingiustamente la plebe? Esiste forse affronto più grande e infamante di questo che considera una parte della popolazione
indegna del matrimonio, come se fosse infetta? Che cos'è questa se non una segregazione all'interno delle mura della
propria città? I patrizi fanno di tutto per evitare che intrecciamo rapporti con loro di affinità e di parentela, non vogliono
che si mescoli il sangue. E che? Se un simile contatto è in grado di contaminare questa vostra nobiltà - che la maggior parte
di voi, date le origini albane e sabine, non possiede per lignaggio o per sangue, ma per essere stata cooptata nel patriziato,
o scelta dai re o per volontà del popolo dopo la cacciata dei re -, non potevate mantenerla intatta con accorgimenti privati,
non prendendo in moglie donne plebee e impedendo che le vostre figlie e sorelle sposassero uomini estranei all'aristocrazia?
Nessun plebeo violenterebbe mai una ragazza patrizia: è una libidine tipica dei nobili. Nessuno costringerebbe un altro a
stipulare un contratto matrimoniale contro la sua volontà. Ma impedire con la legge matrimoni tra patrizi e plebei, annullare
quelli già celebrati, questo sì che è un vero affronto alla plebe! Perché allora non proponete che non ci sia diritto di
matrimonio tra poveri e ricchi? Ciò che sempre e dovunque si è lasciato alla decisione privata - ossia che una donna andasse in
sposa nella casa dove si era convenuto e che l'uomo potesse prendere moglie dalla casa in cui aveva stretto l'accordo -
voi volete assoggettarlo ai vincoli di una legge dispotica, per creare una frattura all'interno della società, spaccando in
due lo Stato. Perché non decretate che il plebeo non possa stare accanto al patrizio, non possa camminare per la stessa strada,
non possa sedersi alla stessa tavola né trovarsi nello stesso foro? Che differenza ci può mai essere se un patrizio sposa una
plebea o un plebeo una patrizia? Contro quale diritto si andrebbe? I figli seguono naturalmente i padri. Volendoci unire in
matrimonio con voi, non chiediamo altro che far parte del consesso umano e civile, e voi non avete nessuna buona ragione per
impedircelo, a meno che vi piaccia gareggiare a chi ci oltraggia e ci umilia di più ".
- Letteratura Latina
- Ab urbe condita
- Livio
- Ab urbe condita