Ab urbe condita, Libro 4, Par. 4 - Studentville

Ab urbe condita, Libro 4, Par. 4

“At enim nemo post reges exactos de

plebe consul fuit. Quid postea? Nullane res nova institui debet? Et quod nondum est factum–multa enim nondum sunt facta in

novo populo,– ea ne si utilia quidem sunt fieri oportet? Pontifices, augures Romulo regnante nulli erant; ab Numa Pompilio

creati sunt. Census in civitate et discriptio centuriarum classiumque non erat; ab Ser. Tullio est facta. Consules nunquam

fuerant; regibus exactis creati sunt. Dictatoris nec imperium nec nomen fuerat; apud patres esse coepit. Tribuni plebi,

aediles, quaestores nulli erant; institutum est ut fierent. Decemuiros legibus scribendis intra decem hos annos et creauimus et

e re publica sustulimus. Quis dubitat quin in aeternum urbe condita, in immensum crescente nova imperia, sacerdotia, iura

gentium hominumque instituantur? Hoc ipsum, ne conubium patribus cum plebe esset, non decemviri tulerunt paucis his annis

pessimo publico, cum summa iniuria plebis? An esse ulla maior aut insignitior contumelia potest quam partem civitatis velut

contaminatam indignam conubio haberi? Quid est aliud quam exsilium intra eadem moenia, quam relegationem pati? Ne

adfinitatibus, ne propinquitatibus immisceamur cauent, ne societur sanguis. Quid? Hoc si polluit nobilitatem istam vestram,

quam plerique oriundi ex Albanis et Sabinis non genere nec sanguine sed per cooptationem in patres habetis, aut ab regibus

lecti aut post reges exactos iussu populi, sinceram seruare privatis consiliis non poteratis, nec ducendo ex plebe neque

vestras filias sororesque ecnubere sinendo e patribus? Nemo plebeius patriciae virgini vim adferret; patriciorum ista libido

est; nemo invitum pactionem nuptialem quemquam facere coegisset. Verum enimuero lege id prohiberi et conubium tolli patrum ac

plebis, id demum contumeliosum plebi est. Cur enim non fertis, ne sit conubium divitibus ac pauperibus? Quod privatorum

consiliorum ubique semper fuit, ut in quam cuique feminae convenisset domum nuberet, ex qua pactus esset vir domo, in

matrimonium duceret, id vos sub legis superbissimae vincula conicitis, qua dirimatis societatem civilem duasque ex una civitate

faciatis. Cur non sancitis ne vicinus patricio sit plebeius nec eodem itinere eat, ne idem conuiuium ineat, ne in foro eodem

consistat? Quid enim in re est aliud, si plebeiam patricius duxerit, si patriciam plebeius? Quid iuris tandem immutatur? Nempe

patrem sequuntur liberi. Nec quod nos ex conubio vestro petamus quicquam est, praeterquam ut hominum, ut civium numero simus,

nec vos, nisi in contumeliam ignominiamque nostram certare iuvat, quod contendatis quicquam est “.

Versione tradotta

" Ma, in realtà, dai tempi della cacciata dei re nessun plebeo è mai stato console. E allora? Non si deve introdurre nessuna

novità? E ciò che non è ancora stato fatto - e in un paese recente le cose non ancora fatte sono certo moltissime - non bisogna

farlo nemmeno se è utile? Ai tempi del regno di Romolo non esistevano né pontefici né àuguri: fu Pompilio a crearli. Non

c'era censo né divisione in centurie basata sul censo: li introdusse Servio Tullio. Non c'erano mai stati dei consoli:

furono creati dopo la cacciata dei re. Il nome e il potere del dittatore non c'erano: cominciarono a esserci al tempo dei

nostri padri. Non esistevano né tribuni della plebe né edili, né questori: si stabilì di averne. Nell'arco degli ultimi

dieci anni, abbiamo eletto decemviri incaricati di redigere le leggi e poi li abbiamo allontanati dalla repubblica. Chi

potrebbe dubitare che, in una città fondata per durare in eterno e che cresce smisuratamente, si debbano istituire nuovi

poteri, nuovi sacerdoti e nuovi diritti delle genti e dei singoli uomini? Questo stesso divieto di contrarre matrimoni tra

patrizi e plebei non lo introdussero i decemviri qualche anno or sono, causando pessimi effetti sulla comunità e danneggiando

ingiustamente la plebe? Esiste forse affronto più grande e infamante di questo che considera una parte della popolazione

indegna del matrimonio, come se fosse infetta? Che cos'è questa se non una segregazione all'interno delle mura della

propria città? I patrizi fanno di tutto per evitare che intrecciamo rapporti con loro di affinità e di parentela, non vogliono

che si mescoli il sangue. E che? Se un simile contatto è in grado di contaminare questa vostra nobiltà - che la maggior parte

di voi, date le origini albane e sabine, non possiede per lignaggio o per sangue, ma per essere stata cooptata nel patriziato,

o scelta dai re o per volontà del popolo dopo la cacciata dei re -, non potevate mantenerla intatta con accorgimenti privati,

non prendendo in moglie donne plebee e impedendo che le vostre figlie e sorelle sposassero uomini estranei all'aristocrazia?

Nessun plebeo violenterebbe mai una ragazza patrizia: è una libidine tipica dei nobili. Nessuno costringerebbe un altro a

stipulare un contratto matrimoniale contro la sua volontà. Ma impedire con la legge matrimoni tra patrizi e plebei, annullare

quelli già celebrati, questo sì che è un vero affronto alla plebe! Perché allora non proponete che non ci sia diritto di

matrimonio tra poveri e ricchi? Ciò che sempre e dovunque si è lasciato alla decisione privata - ossia che una donna andasse in

sposa nella casa dove si era convenuto e che l'uomo potesse prendere moglie dalla casa in cui aveva stretto l'accordo -

voi volete assoggettarlo ai vincoli di una legge dispotica, per creare una frattura all'interno della società, spaccando in

due lo Stato. Perché non decretate che il plebeo non possa stare accanto al patrizio, non possa camminare per la stessa strada,

non possa sedersi alla stessa tavola né trovarsi nello stesso foro? Che differenza ci può mai essere se un patrizio sposa una

plebea o un plebeo una patrizia? Contro quale diritto si andrebbe? I figli seguono naturalmente i padri. Volendoci unire in

matrimonio con voi, non chiediamo altro che far parte del consesso umano e civile, e voi non avete nessuna buona ragione per

impedircelo, a meno che vi piaccia gareggiare a chi ci oltraggia e ci umilia di più ".

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