Didone e Enea: Eneide, Libro 4, vv. 1-53

Eneide, Libro 4, vv. 1-53: Didone e Enea

Il quarto libro dell’Eneide di Virgilio è un capitolo fondamentale nell’epica storia di Enea, poiché approfondisce il dramma umano e il conflitto emotivo attraverso il personaggio di Didone, regina di Cartagine. Nei primi 53 versi, Virgilio ci presenta una Didone straziata dall’amore per Enea, un amore che cresce in intensità e tormento. Il poeta descrive come il destino e la volontà divina influiscano sulla vita dei mortali, mostrando Didone intrappolata tra la passione travolgente per l’eroe troiano e il dovere verso il suo regno.

Didone, che aveva giurato fedeltà eterna alla memoria del defunto marito Sicheo, si trova ora a combattere contro i sentimenti nascosti che emergono con prepotenza. La sua mente è consumata dai pensieri di Enea, mentre le sue notti sono senza pace, e il suo cuore è in tumulto. Virgilio ritrae con maestria il conflitto interno della regina, illustrando come l’amore possa essere sia una fonte di gioia immensa che di distruzione personale.

Nel frattempo, Enea è presentato come un uomo ignaro del tumulto interiore di Didone, poiché è concentrato sulla sua missione divina di trovare una nuova patria per i Troiani. Questo contrasto tra i due protagonisti mette in risalto l’ineluttabilità del destino e l’impotenza dei mortali di fronte agli ordini divini.

 

Versione Tradotta dell’Eneide: Testo originale, Libro 4 Versi 1-53 – Didone e Enea

At regina gravi iamdudum saucia cura
vulnus alit venis et caeco carpitur igni.
multa viri

virtus animo multusque recursat
gentis honos; haerent infixi pectore vultus
verbaque nec placidam membris dat cura

quietem.
postera Phoebea lustrabat lampade terras
umentemque Aurora polo dimoverat umbram,
cum sic unanimam

adloquitur male sana sororem:
‘Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent.
quis novus hic nostris successit

sedibus hospes,
quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis.
credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum.

degeneres animos timor arguit. heu, quibus ille
iactatus fatis. quae bella exhausta canebat.
si mihi non animo

fixum immotumque sederet
ne cui me vinclo vellem sociare iugali,
postquam primus amor deceptam morte fefellit;
si

non pertaesum thalami taedaeque fuisset,
huic uni forsan potui succumbere culpae.
Anna fatebor enim miseri post fata

Sychaei
coniugis et sparsos fraterna caede penatis
solus hic inflexit sensus animumque labantem
impulit. agnosco

veteris vestigia flammae.
sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat
vel pater omnipotens adigat me fulmine ad

umbras,
pallentis umbras Erebo noctemque profundam,
ante, pudor, quam te violo aut tua iura resolvo.
ille meos,

primus qui me sibi iunxit, amores
abstulit; ille habeat secum servetque sepulcro.’
sic effata sinum lacrimis

implevit obortis.
Anna refert: ‘o luce magis dilecta sorori,
solane perpetua maerens carpere iuventa
nec dulcis

natos Veneris nec praemia noris?
id cinerem aut manis credis curare sepultos?
esto: aegram nulli quondam flexere

mariti,
non Libyae, non ante Tyro; despectus Iarbas
ductoresque alii, quos Africa terra triumphis
dives alit:

placitone etiam pugnabis amori?
nec venit in mentem quorum consederis arvis?
hinc Gaetulae urbes, genus insuperabile

bello,
et Numidae infreni cingunt et inhospita Syrtis;
hinc deserta siti regio lateque furentes
Barcaei. quid

bella Tyro surgentia dicam
germanique minas?
dis equidem auspicibus reor et Iunone secunda
hunc cursum Iliacas

vento tenuisse carinas.
quam tu urbem, soror, hanc cernes, quae surgere regna
coniugio tali. Teucrum comitantibus armis

Punica se quantis attollet gloria rebus.
tu modo posce deos veniam, sacrisque litatis
indulge hospitio causasque

innecte morandi,
dum pelago desaevit hiems et aquosus Orion,
quassataeque rates, dum non tractabile caelum.’

 

Versione Tradotta dell’Eneide: Testo tradotto, Libro 4 Versi 1-53 – Didone e Enea

Ma la regina ormai ferita dal grave affanno
limenta nelle vene la ferita ed è rosa da cieco

fuoco.
Ricorre nel cuore il forte eroismo dell’eroe ed il forte
onore della stirpe; s’attaccano fisse alla mente le

fattezze
e le parole né l’affanno dà alle membra placida quiete.
L’aurora seguente colla lampada Febea illuminava
le

terre e dal cielo aveva cacciato l’umida ombra,
quando impazzita così parla alla sorella amatissima:
Anna, sorella, che

incubi mi atterriscono ansiosa.
Che ospite strano, questo, ( che) è giunto alla nostra
casa, presentandosi come d’

aspetto, di così forte petto
e di armi. Lo credo davvero, non è vana certezza che è stirpe di dei. La
paura rivela i

cuori vili. Ah, da quali
fati egli è sbattuto. Che guerre compiute raccontava.
Se non mi stesse fisso ed immobile in

cuore
di non volermi unire a nessuno col vincolo coniugale,
dopo che il primo amore mi lasciò tradita con la morte;
se

non avessi disgusto per il rito di nozze,
forse avrei potuto cedere a quest’unica colpa.
Anna, lo confesserò, dopo i

destini del povero marito
Sicheo ed i penati dispersi dalla strage del fratello
solo costui piegò i sentimenti

e scosse il cuore
che vacilla. Conosco i segni della antica fiamma.
Ma per me vorrei o che prima la terra si spalanchi

infima
o il padre onnipotente mi cacci col fulmine alle ombre,
le pallide ombre nell’Erebo e la notte

profonda,
prima che violi, Pudore, o dissolva le tue leggi.
Lui i miei amori, lui che per primo a sé mi unì,
prese;

lui li tenga con sé e li serbi nel sepolcro
Espressasi così, riempì il seno di lacrime dirotte.
Anna riprende: Oh più

cara della luce, per tua sorella,
forse sola soffrendo sarai divorata per tutta la giovinezza
né conoscerai i dolci figli

ed i regali di Venere?
Credi che questo ami la cenere ed i mani sepolti?
Sia: un tempo nessun marito piegò l’

addolorata,
non in Libia, non prima a Tiro: Iarba respinto
e gli altri principi, che l’Africa, terra ricca di

trionfi,
alimenta: forse contrasterai ad un amore gradito?
Né viene in mente nei campi di chi dimori?
Di qui città

Getule, stirpe insuperabile in guerra,
ti cingono e indomiti Numidi e la Sirte inospitale;
di là una regione

deserta per sete ed i furibondi
Barcei. Perché nominare le guerre nascenti da Tiro
e le minacce del fratello?

Certamente con gli dei favorevoli e Giunone concorde
credo che le navi di Ilio col venti ha tenuto questa rotta. Quale

città,
sorella, tu vedrai sorgere, questa, e che regni
con tale unione! Alleandosi le armi dei Teucri,
la gloria

Punica a quali imprese si innalzerà!
Tu intanto chiedi aiuto agli dei, celebrati i sacrifici,
accorda l’ospitalità ed

inventa motivi per fermarsi,
mentre sul mare infuria l’inverno ed il piovoso Orione,
e le navi sconquassate, mentre il

clima è intrattabile.

 

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