Eneide, Libro 4, traduzione vv. 219-295 - Studentville

Eneide, Libro 4, traduzione vv. 219-295

Talibus orantem dictis arasque tenentem
audiit Omnipotens, oculosque ad moenia torsit
regia et oblitos famae

melioris amantis.
tum sic Mercurium adloquitur ac talia mandat:
‘vade age, nate, voca Zephyros et labere pennis

Dardaniumque ducem, Tyria Karthagine qui nunc
exspectat fatisque datas non respicit urbes,
adloquere et celeris

defer mea dicta per auras.
non illum nobis genetrix pulcherrima talem
promisit Graiumque ideo bis vindicat armis;

sed fore qui gravidam imperiis belloque frementem
Italiam regeret, genus alto a sanguine Teucri
proderet, ac totum

sub leges mitteret orbem.
si nulla accendit tantarum gloria rerum
nec super ipse sua molitur laude laborem,

Ascanione pater Romanas invidet arces?
quid struit? aut qua spe inimica in gente moratur
nec prolem Ausoniam et

Lavinia respicit arva?
naviget. haec summa est, hic nostri nuntius esto.’
Dixerat. ille patris magni parere parabat

imperio; et primum pedibus talaria nectit
aurea, quae sublimem alis sive aequora supra
seu terram rapido pariter

cum flamine portant.
tum virgam capit: hac animas ille evocat Orco
pallentis, alias sub Tartara tristia mittit,
dat

somnos adimitque, et lumina morte resignat.
illa fretus agit ventos et turbida tranat
nubila. iamque volans apicem et

latera ardua cernit
Atlantis duri caelum qui vertice fulcit,
Atlantis, cinctum adsidue cui nubibus atris
piniferum

caput et vento pulsatur et imbri,
nix umeros infusa tegit, tum flumina mento
praecipitant senis, et glacie riget

horrida barba.
hic primum paribus nitens Cyllenius alis
constitit; hinc toto praeceps se corpore ad undas
misit avi

similis, quae circum litora, circum
piscosos scopulos humilis volat aequora iuxta.
haud aliter terras inter caelumque

volabat
litus harenosum ad Libyae, ventosque secabat
materno veniens ab avo Cyllenia proles.
ut primum alatis

tetigit magalia plantis,
Aenean fundantem arces ac tecta novantem
conspicit. atque illi stellatus iaspide fulva

ensis erat Tyrioque ardebat murice laena
demissa ex umeris, dives quae munera Dido
fecerat, et tenui telas

discreverat auro.
continuo invadit: ‘tu nunc Karthaginis altae
fundamenta locas pulchramque uxorius urbem

exstruis? heu, regni rerumque oblite tuarum.
ipse deum tibi me claro demittit Olympo
regnator, caelum et terras qui

numine torquet,
ipse haec ferre iubet celeris mandata per auras:
quid struis? aut qua spe Libycis teris otia terris?

si te nulla movet tantarum gloria rerum
[nec super ipse tua moliris laude laborem,]
Ascanium surgentem et spes

heredis Iuli
respice, cui regnum Italiae Romanaque tellus
debetur.’ tali Cyllenius ore locutus
mortalis visus

medio sermone reliquit
et procul in tenuem ex oculis evanuit auram.
At vero Aeneas aspectu obmutuit amens,

arrectaeque horrore comae et vox faucibus haesit.
ardet abire fuga dulcisque relinquere terras,
attonitus tanto

monitu imperioque deorum.
heu quid agat? quo nunc reginam ambire furentem
audeat adfatu? quae prima exordia sumat?

atque animum nunc huc celerem nunc dividit illuc
in partisque rapit varias perque omnia versat.
haec alternanti

potior sententia visa est:
Mnesthea Sergestumque vocat fortemque Serestum,
classem aptent taciti sociosque ad litora

cogant,
arma parent et quae rebus sit causa novandis
dissimulent; sese interea, quando optima Dido
nesciat et

tantos rumpi non speret amores,
temptaturum aditus et quae mollissima fandi
tempora, quis rebus dexter modus. ocius

omnes
imperio laeti parent et iussa facessunt.

Versione tradotta

Lo sentì che pregava

con tali parole e tenendo
gli altari l’Onnipotente, storse gli occhi alle mura regali ì
ed agli amanti

dimentichi di fama migliore.
Allora così parla a Mercurio e questo gli affida:
“Su, va’, figlio, chiama gli Zefiri e

scendi a volo
e parla al capo Dardanio, che ora aspetta nella Tiria
Cartagine e non guarda alle città concesse dai

fati
e riferisci veloce le mie parole nel cielo.
Non ce lo promise tale la bellissima madre
e lo protegge perciò due

volte dall’armi dei Grai;
ma che guidasse l’Italia gravida di potenze e fremente
di guerra, che propagasse la stirpe

dal grande sangue
di Teucro e mettesse sotto leggi il mondo intero.
Se nessuna gloria di grandi imprese lo accende

lui si smuove all’impegno per il suo onore,
come padre invidia forse ad Ascanio le rocche romane?
Che combina? O con

quale mira si ferma tra gente nemica
e non guarda alla prole Ausonia ed ai campi di Lavinio?
Navighi! Questa è la

conclusione, questo sia il nostro avviso”.
Aveva sentenziato. Egli si preparava ad ubbidire all’ordine
del gran padre; e

prima si allaccia i calzari d’oro ai piedi,
che lo portano altissimo con le ali sia sopra le acque ì
e la terra

ugualmente con veloce soffio.
Allora prende la verga: con questa egli richiama le anime
pallide dall’Orco, altre le invia

sotto i tristi Tartari,
dà i sonni e li toglie, e libera gli occhi dalla morte.
Munendosi di essa spinge i venti e

trapassa le torbide
nuvole. Ormai volando vede la vetta ed i fianchi ripidi
del duro Atlante che regge col capo il

cielo,
di Atlante, cui la testa ricca di pini frequentemente
è cinta di nere nubi ed è battuta da vento e da

pioggia,
la neve scesa copre le spalle, poi fiumi precipitano dal mento
del vecchio e l’ispida barba s’irrigidisce pel

ghiaccio.
Qui dapprima il Cillenio splendente si fermò con l’ali
appaiate; di qui con tutto il corpo si lanciò capofitto

nell’onde
simile ad uccello, che attorno alle spiagge, attorno
ai pescosi scogli vola basso vicino alle acque.
Non

diversamente volava tra cielo e terra
verso il lido sabbioso di Libia, e la prole Cillenia
provenendo dall’avo materno

tagliava i venti.
Appena con le piante alate toccò i sobborghi,
vede Enea che fonda le rocche e crea nuove case.

ì
Egli aveva pure una spada costellata di rosso
diaspro ed un mantello di porpora Tiria,che scendeva
dalle

spalle, splendeva: questo dono l’aveva fatto
la ricca Didone e l’aveva trapuntato la stoffa d’oro sottile.
Subito l’

assale: “ Tu adesso poni le fondamenta della grande
Cartagine e ligio alla moglie costruisci una bella città.
Ahimè,

dimentico del regno e delle tue imprese.
Lo stesso re degli dei mi invia dallo splendido
Olimpo, lui che con potenza

volge cielo e terra,
lui ordina di recare questi ordini nei cieli veloci:
cosa combini? O con che speranza rovini il

tempo in terre libiche?
Se non ti smuove nessuna fama di tante imprese
né tu affronti l’impegno per la tua

gloria,
guarda ad Ascanio che cresce ed alle speranze dell’erede
Iulo, cui è dovuto il regno d’Italia e la terra

ìì
Romana.” Dopo aver parlato con tale espressione il Cillenio
lasciò le sembianze mortali nel mezzo del

discorso
e disparve dagli occhi nell’aria leggera.
Ma Enea davvero alla vista ammutolì, fuor di sé,
e le chiome dritte

e la voce s'attaccò alle fauci.
Brucia di andarsene in fuga e lasciare le dolci terre,
attonito per sì grande monito e

ordine degli dei.
Ahi, che fare? Con quale parola osare avvicinare
la regina impazzita? Quali iniziative prender per

prime?
Ed ora divide la mente veloce ora qui ora là
la strappa in vari pezzi e si volge dappertutto.
A lui

altalenante questo parere parve migliore:
chiama Mnesteo e Sergesto ed il forte Seresto,
zitti allestiscano la flotta e

spingano ai lidi i compagni,
preparino armi e dissimulino quale sia la causa
per cambiare i piani; lui intanto, poiché

l'ottima Didone
non sa e non spera che si grandi amori si spezzino,
tenterà le strade ed i momenti più teneri
di

parlare, quale sia il modo adatto alle cose. Subito tutti
lieti obbediscano all'ordine ed eseguono i comandi.

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