Nel quarto libro dell’Eneide, nei versi 331-361, assistiamo a un momento cruciale e drammatico: la replica di Enea. Dopo che Didone ha espresso il suo amore e la sua disperazione per l’imminente partenza di Enea, l’eroe troiano risponde con un discorso che mette in luce il suo dovere e il suo destino.
Enea, pur riconoscendo i sentimenti di Didone, ribadisce la necessità di seguire la volontà degli dèi e il suo destino di fondare una nuova patria in Italia. Questo passaggio, carico di tensione emotiva, sottolinea il conflitto tra amore e dovere, uno dei temi centrali dell’opera di Virgilio.
La replica di Enea rappresenta un momento di svolta nella narrazione, mostrando la sua determinazione e il peso delle responsabilità che porta sulle spalle.
Versione Tradotta dell’Eneide: Testo originale, Libro 4 Versi 331-361 – la replica di Enea
Dixerat. ille Iovis monitis immota tenebat
lumina et obnixus
curam sub corde premebat.
tandem pauca refert: ‘ego te, quae plurima fando
enumerare vales, numquam, regina, negabo
promeritam, nec me meminisse pigebit Elissae
dum memor ipse mei, dum spiritus hos regit artus.
pro re pauca loquar.
neque ego hanc abscondere furto
speravi ne finge fugam, nec coniugis umquam
praetendi taedas aut haec in foedera veni.
me si fata meis paterentur ducere vitam
auspiciis et sponte mea componere curas,
urbem Troianam primum dulcisque
meorum
reliquias colerem, Priami tecta alta manerent,
et recidiva manu posuissem Pergama victis.
sed nunc Italiam
magnam Gryneus Apollo,
Italiam Lyciae iussere capessere sortes;
hic amor, haec patria est. si te Karthaginis arces
Phoenissam Libycaeque aspectus detinet urbis,
quae tandem Ausonia Teucros considere terra
invidia est? et nos fas
extera quaerere regna.
me patris Anchisae, quotiens umentibus umbris
nox operit terras, quotiens astra ignea
surgunt,
admonet in somnis et turbida terret imago;
me puer Ascanius capitisque iniuria cari,
quem regno Hesperiae
fraudo et fatalibus arvis.
nunc etiam interpres divum Iove missus ab ipso
testor utrumque caput celeris mandata per
auras
detulit: ipse deum manifesto in lumine vidi
intrantem muros vocemque his auribus hausi.
desine meque tuis
incendere teque querelis;
Italiam non sponte sequor.’
Versione Tradotta dell’Eneide: Testo tradotto, Libro 4 Versi 331-361 – la replica di Enea
Aveva detto. Egli teneva
gli occhi immobili agli ordini
di Giove e sforzandosi premeva il dolore dentro il cuore.
Finalmente proferisce poche
cose: “Io mai negherò che tu
hai meriti, i maggiori che parlando sei in grado di enumerare,
o regina, né mi rincrescerà
ricordarmi di Elissa, fin che io stesso
sia memore di me, fin che lo spirito regga queste membra.
Per il fatto dirò
poco. Né io sperai nasconder con frode
questa fuga, non credere, né mai ho alzato fiaccole
di marito o venni a tali
patti.
Io se i fati permettessero di condurre la vita secondo miei
desideri e e calmare gli affanni di mia scelta,
anzitutto onorerei la città troiana ed i dolci resti dei miei,
si manterrebbero le alte regge di Priamo, e con
mano
ostinata avrei rifatto Pergamo per i vinti.
Ma ora Apollo Grineo e gli oracoli dei Licia mi hanno
comandato di
raggiungere Italia;
questo il mio amore, questa è la mia patria. Se le rocche
di Cartagine e la vista d’una città
libica trattiene te, Fenicia,
quale invidia c’è che finalmente i Teucri si fermino su terra
Ausonia? E’ fato che
anche noi cerchiamo regni stranieri.
Me terrorizza la sconvolta immagine del padre Anchise e mi ammonisce
in sogno,
quando, piovendo le ombre,
la notte ricopre le terre, quando gli astri ignei sorgono;
Me, pure, i piccolo Ascanio ed il
torto del caro volto
che defraudo del regno d’Esperia e dei campi fatali.
Ora anche l’interprete degli dei mandato
dallo stesso Giove,
lo giuro sul capo d’entrambi, inviò ordini attraverso i cieli
veloci: io stesso vidi il dio in
chiara visione che penetrava
le mura e ne assorbii la voce con queste orecchie.
Smetti di incendiare me e te coi tuoi
pianti;
l’Italia la inseguo non spontaneamente.”
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