Nel quarto libro dell’Eneide, Virgilio narra l’inizio di uno degli episodi più tragici e commoventi dell’intero poema: la maledizione e poi la morte di Didone, regina di Cartagine. Nei versi 584-629, e nei successivi vv. 630-666, assistiamo al drammatico culmine del tormento di Didone, abbandonata da Enea, l’uomo di cui si era perdutamente innamorata. Questo evento non solo segna una svolta cruciale nella trama, ma rivela anche la complessità e la profondità del dolore umano.
Dopo aver scoperto che Enea ha deciso di partire, spinto dal suo destino di fondare una nuova patria in Italia, Didone è sopraffatta dalla disperazione. Virgilio dipinge un quadro vivido della regina che, sentendosi tradita e senza speranza, decide di porre fine alla sua vita. La scena è ambientata su una pira funebre, preparata da Didone stessa con oggetti appartenuti a Enea, come simbolo del suo amore perduto e del suo insopportabile dolore.
Mentre il cielo si oscura e il destino tragico si compie, Didone si erge con una risoluzione che mescola dignità e disperazione. La sua sorella Anna, ignara del proposito suicida di Didone, cerca di intervenire, aggiungendo un ulteriore strato di tragedia alla scena. La tensione emotiva è palpabile, e la descrizione di Virgilio trasmette con grande efficacia il senso di irrevocabilità e destino.
Versione Tradotta dell’Eneide: Testo originale, Libro 4, vv. 584-629 – la maledizione di Didone
Et iam prima novo spargebat lumine terras
Tithoni
croceum linquens Aurora cubile.
regina e speculis ut primam albescere lucem
vidit et aequatis classem procedere velis,
litoraque et vacuos sensit sine remige portus,
terque quaterque manu pectus percussa decorum
flaventisque abscissa
comas ‘pro Iuppiter. ibit
hic,’ ait ‘et nostris inluserit advena regnis?
non arma expedient totaque ex urbe
sequentur,
diripientque rates alii navalibus? ite,
ferte citi flammas, date tela, impellite remos.
quid loquor? aut
ubi sum? quae mentem insania mutat?
infelix Dido, nunc te facta impia tangunt?
tum decuit, cum sceptra dabas. en
dextra fidesque,
quem secum patrios aiunt portare penatis,
quem subiisse umeris confectum aetate parentem.
non
potui abreptum divellere corpus et undis
spargere? non socios, non ipsum absumere ferro
Ascanium patriisque epulandum
ponere mensis?
verum anceps pugnae fuerat fortuna. fuisset:
quem metui moritura? faces in castra tulissem
implessemque foros flammis natumque patremque
cum genere exstinxem, memet super ipsa dedissem.
Sol, qui terrarum
flammis opera omnia lustras,
tuque harum interpres curarum et conscia Iuno,
nocturnisque Hecate triviis ululata per
urbes
et Dirae ultrices et di morientis Elissae,
accipite haec, meritumque malis advertite numen
et nostras audite
preces. si tangere portus
infandum caput ac terris adnare necesse est,
et sic fata Iovis poscunt, hic terminus haeret,
at bello audacis populi vexatus et armis,
finibus extorris, complexu avulsus Iuli
auxilium imploret videatque
indigna suorum
funera; nec, cum se sub leges pacis iniquae
tradiderit, regno aut optata luce fruatur,
sed cadat
ante diem mediaque inhumatus harena.
haec precor, hanc vocem extremam cum sanguine fundo.
tum vos, o Tyrii, stirpem et
genus omne futurum
exercete odiis, cinerique haec mittite nostro
munera. nullus amor populis nec foedera sunto.
exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor
qui face Dardanios ferroque sequare colonos,
nunc, olim, quocumque
dabunt se tempore vires.
litora litoribus contraria, fluctibus undas
imprecor, arma armis: pugnent
ipsique nepotesque.’
Versione Tradotta dell’Eneide: Testo tradotto, Libro 4, vv. 584-629 – la maledizione di Didone
E gia la prima Aurora lasciando giaciglio di croco
di Titone spruzzava le terre di nuova
luce.
La regina dalle vedette come vide biancheggiare la prima
luce e la flotta procedere a vele spiegate,
e
s’accorse dei lidi e dei porti vuoti senza un rematore,
percotendo il bel petto con la mano e tre e quattro volte
e
sciolta nelle biondeggianti chiome ” Oh Giove. Andrà
costui, dice, e lo straniero si befferà dei nostri regni?
Gli altri
non prenderanno le armi e inseguiranno da tutta la città
e strapperanno le barche dagli arsenali? Andate,
rapidi portate
fiamme, date armi, spingete i remi.
Che dico? O dove sono? Che pazzia cambia la mente?
Infelice Didone, ora fatti
sacrileghi ti colpiscono?
Allora andò bene, quando davi lo scettro. Ecco destra e lealtà,
quello che dicono portare con
sé i sacri penati,
che dicono aver sostenuto sulle spalle il padre logorato dall’età.
Non ho potuto strappare il
corpo maciullato e spargerlo
sulle onde? Non bramare i compagni, lo stesso Ascanio
con la spada e metterlo da
mangiare sulle mense paterne?
Davvero era dubbia la sorte della battaglia. Lo fosse stata:
chi temetti, destinata a
morire? Avrei portato le fiamme
nell’accampamento, riempito di fuochi le tolde, estinto
il figlio ed il padre con la
stirpe, e posto me stessa su quelli.
Sole, che illumini di raggi tutte le opere delle terre,
tu pure mediatrice e
consapevole di questi affanni,
Ecate ululata nelle città nei trivi notturni
e Dire vendicatrici e dei della morente
Elissa,
accettate questo, volgete ai malvagi la giusta vendetta
e ascoltate le nostre preghiere. Se è necessario che
l’infame
persona tocchi i porti e navighi su terre
e così chiedono i fati di Giove, questo traguardo è fisso,
però
oppresso dalla guerra d’un popolo fiero e dalle armi,
esule dai territori, strappato dall’abbraccio di Iulo
implori
aiuto e veda le indegne morti dei suoi;
né, consegnatosi sotto leggi di iniqua pace, goda
del regno o della luce
desiderata, ma cada
prima del tempo ed insepolto in mezzo alla sabbia.
Questo prego, verso questa ultima frase
col sangue.
Poi, voi, o Tirii, trattate con odio la stirpe e tutto
il popolo futuro, ed inviate alla nostra cenere
questi
regali. Per i popoli non ci siano alcun amore e patti.
Sorgi tu, un vendicatore, dalle nostre ossa
sì, insegui
i coloni Dardani col ferro e col fuoco,
ora, dopo, in qualunque tempo si daranno le forze.
Prego lidi opposti a lidi,
onde a flutti,
armi ad armi: combattano sia loro, sia i nipoti.”
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