La morte di Didone viene narrata nel quarto libro dell’Eneide di Virgilio, che descrive con maestria il tormento interiore della regina. Didone si sente tradita non solo dall’uomo che ama, ma anche dagli dei che sembrano averla abbandonata. La decisione di Didone di togliersi la vita è un atto di disperazione estrema, un tentativo di trovare pace in un’esistenza ormai insopportabile. La scena della sua morte è carica di pathos: Didone prepara un rogo funebre con gli oggetti appartenuti a Enea, simbolo del suo amore perduto e del suo destino infranto.
L’immagine della regina che giace senza vita sul rogo, circondata dalle fiamme e dal fumo, è potente e commovente. Accanto a lei, la sorella Anna, ignara del proposito suicida di Didone, cerca di intervenire ma arriva troppo tardi. Le lacrime di Anna e la devastazione sul suo volto amplificano la tragedia del momento, sottolineando la perdita non solo di una regina, ma anche di una sorella e di una donna che ha amato con tutta se stessa.
Versione Tradotta dell’Eneide: Testo originale, Libro 4 Versi 630-666 – La morte di Didone
Haec ait, et partis animum versabat in
omnis,
invisam quaerens quam primum abrumpere lucem.
tum breviter Barcen nutricem adfata Sychaei,
namque suam
patria antiqua cinis ater habebat:
‘Annam, cara mihi nutrix, huc siste sororem:
dic corpus properet fluviali
spargere lympha,
et pecudes secum et monstrata piacula ducat.
sic veniat, tuque ipsa pia tege tempora vitta.
sacra
Iovi Stygio, quae rite incepta paravi,
perficere est animus finemque imponere curis
Dardaniique rogum capitis
permittere flammae.’
sic ait. illa gradum studio celebrabat anili.
at trepida et coeptis immanibus effera Dido
sanguineam volvens aciem, maculisque trementis
interfusa genas et pallida morte futura,
interiora domus inrumpit
limina et altos
conscendit furibunda rogos ensemque recludit
Dardanium, non hos quaesitum munus in usus.
hic,
postquam Iliacas vestis notumque cubile
conspexit, paulum lacrimis et mente morata
incubuitque toro dixitque novissima
verba:
‘dulces exuviae, dum fata deusque sinebat,
accipite hanc animam meque his exsolvite curis.
vixi et quem
dederat cursum Fortuna peregi,
et nunc magna mei sub terras ibit imago.
urbem praeclaram statui, mea moenia vidi,
ulta virum poenas inimico a fratre recepi,
felix, heu nimium felix, si litora tantum
numquam Dardaniae tetigissent
nostra carinae.’
dixit, et os impressa toro ‘moriemur inultae,
sed moriamur’ ait. ‘sic, sic iuvat ire sub
umbras.
hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto
Dardanus, et nostrae secum ferat omina mortis.’
dixerat,
atque illam media inter talia ferro
conlapsam aspiciunt comites, ensemque cruore
spumantem sparsasque manus. it clamor
ad alta
atria: concussam bacchatur Fama per urbem.
Versione Tradotta dell’Eneide: Testo tradotto, Libro 4 Versi 630-666 – La morte di Didone
Questo disse,
e volgeva la mente in tutte le parti,
cercando troncare l’odiata luce al più presto.
Poi brevemente si rivolse a
Barce, nutrice di Sicheo,
(infatti la nera cenere teneva la sua nell’antica patria):
” Nutrice a me cara, chiama qui
la sorella Anna:
di’ che s’affretti a cospargersi il corpo di acqua fluviale,
e porti con sé gli animali ed i
sacrifici indicati.
Venga così, tu pure con la pia benda copri le tempie.
L’idea è di completare i riti, che iniziati
preparai bene,
a Giove Stigio e porre fine agli affanni ed
affidare il rogo dell’uomo dardani alla fiamma.”.
Così
disse. Quella affrettava il passo con lena senile.
Ma trepidante e furente per i propositi atroci, Didone
volgendo lo
sguardo di sangue, chiazzata le guance
frementi di chiazee pallida della futura morte,
irrompe nelle stanze interne della
casa e sale
impazzita gli alti roghi e sguaina la spada
Dardania, regalo chiesto non per questi usi.
Qui, dopo che
guardò le vesti iliache ed il noto
letto, fermatasi un po’ per lacrime e pensiero
si buttò sul letto e disse le
ultime parole:
“Dolci spoglie, fin che i fati ed il dio permetteva,
accogliete quest’anima e scioglietemi da
questi affanni.
Vissi ed il corso che la sorte mi diede, l’ho compiuto,
ed ora la grande immagine di me andrà sotto le
terre.
Fondai una città famosa, vidi le mie mura,
vendicato il marito, ricevetti soddisfazione dal fratello
nemico,
felice, ahi, troppo felice, se soltanto le carene
Dardanie non avessero mai toccato i nostri lidi.”.
Disse ed
impressa la bocca sul letto”Moriremo non vendicate,
ma moriamo” disse. “Così, così è bello andar sotto le ombre.
Il
crudele Dardano beva con gli occhi questo fuoco
dall’alto, e porti con sé i presagi della nostra morte”.
Aveva detto,
e le compagne in mezzo a tali parole la vedono crollata
sull’arma, e la spada spumeggiante di sangue
e cosparse le
mani. Va il grido alle alte
stanze: Fama furoreggia per la città sconvolta.
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