Eneide, Libro 5, traduzione vv. 603-663 - Studentville

Eneide, Libro 5, traduzione vv. 603-663

Hinc primum Fortuna fidem mutata novavit.
dum variis

tumulo referunt sollemnia ludis,
Irim de caelo misit Saturnia Iuno
Iliacam ad classem ventosque aspirat eunti,

multa movens necdum antiquum saturata dolorem.
illa viam celerans per mille coloribus arcum
nulli visa cito

decurrit tramite virgo.
conspicit ingentem concursum et litora lustrat
desertosque videt portus classemque relictam.

at procul in sola secretae Troades acta
amissum Anchisen flebant, cunctaeque profundum
pontum aspectabant flentes.

heu tot vada fessis
et tantum superesse maris, vox omnibus una;
urbem orant, taedet pelagi perferre laborem.
ergo

inter medias sese haud ignara nocendi
conicit et faciemque deae vestemque reponit;
fit Beroe, Tmarii coniunx longaeva

Dorycli,
cui genus et quondam nomen natique fuissent,
ac sic Dardanidum mediam se matribus infert.
‘o miserae,

quas non manus’ inquit ‘Achaica bello
traxerit ad letum patriae sub moenibus. o gens
infelix, cui te exitio

Fortuna reservat?
septima post Troiae excidium iam vertitur aestas,
cum freta, cum terras omnis, tot inhospita saxa

sideraque emensae ferimur, dum per mare magnum
Italiam sequimur fugientem et volvimur undis.
hic Erycis fines

fraterni atque hospes Acestes:
quis prohibet muros iacere et dare civibus urbem?
o patria et rapti nequiquam ex hoste

penates,
nullane iam Troiae dicentur moenia? nusquam
Hectoreos amnis, Xanthum et Simoenta, videbo?
quin agite et

mecum infaustas exurite puppis.
nam mihi Cassandrae per somnum vatis imago
ardentis dare visa faces: “hic quaerite

Troiam;
hic domus est” inquit “vobis.” iam tempus agi res,
nec tantis mora prodigiis. en quattuor arae
Neptuno;

deus ipse faces animumque ministrat.’
haec memorans prima infensum vi corripit ignem
sublataque procul dextra

conixa coruscat
et iacit. arrectae mentes stupefactaque corda
Iliadum. hic una e multis, quae maxima natu,
Pyrgo,

tot Priami natorum regia nutrix:
‘non Beroe vobis, non haec Rhoeteia, matres,
est Dorycli coniunx; divini signa

decoris
ardentisque notate oculos, qui spiritus illi,
qui vultus vocisque sonus vel gressus eunti.
ipsa egomet

dudum Beroen digressa reliqui
aegram, indignantem tali quod sola careret
munere nec meritos Anchisae inferret

honores.’
haec effata. at matres primo ancipites oculisque malignis
ambiguae spectare rates miserum inter amorem

praesentis terrae fatisque vocantia regna,
cum dea se paribus per caelum sustulit alis
ingentemque fuga secuit sub

nubibus arcum.
tum vero attonitae monstris actaeque furore
conclamant, rapiuntque focis penetralibus ignem,
pars

spoliant aras, frondem ac virgulta facesque
coniciunt. furit immissis Volcanus habenis
transtra per et remos et pictas

abiete puppis.

Versione tradotta

Anzitutto qui

Fortuna, mutatasi, cambiò aspetto.
Mentre con vari giochi offrivano alla tomba i riti solenni,
la saturnia Giunone

inviò dal cielo Iride
e spira a lei che va alla flotta iliaca i venti,
tramando molto non ancora ripagata dell'antico

dolore.
La vergine affrettando la via, per un sentiero, attraverso
l'arco di mille colori, vista da nessuno, corre

velocemente.
Vede la grande folla, guarda i lidi,
vede i porti deserti e la flotta abbandonata.
Ma lontane le Troiane

ritirate in suoli isolati
piangevano il perduto Anchise e tutte osservavano
il mare profondo piangendo. Ahi, restava per

le stanche
tanti guadi, e tanto mare: una sola espressione per tutte.
Chiedono una città, angoscia patire la fatica del

mare.
Perciò si immette in mezzo, non ignara di nuocere
depone la veste e l'aspetto di dea;
diventa Beroe, anziana

moglie di Tmario Doriclo,
che un tempo ebbe stirpe, fame e figli,
e così si porta in mezzo alle madri dei

Dardanidi.
"O misere, che la mano achea, disse, non ha tatto
alla morte sotto le mura della patria. O

popolo
sfortunato, a quale rovina ti riserva Fortuna?
Ormai ricorre la settima estate dopo la caduta di Troia,
da che

siamo portate dopo aver misurato mari, tutte le terre
tante rocce inospitali e stelle, mentre inseguiamo
per il grande

mare un Italia che fugge e siamo travolte dalle onde.
Qui (sono) le terre fraterne di Erice e l'ospite Aceste:
chi

impedisce di fondare mura e dare una città ai cittadini?
O patria, o Penati invano strappati al nemico,
forse mai nessuna

sarà chiamata mura di Troia? Altrove
non vedrò fiumi Ettorei, Xanto e Simoenta?
Dunque orsù, bruciate con me le

sciagurate navi.
Mi parve in sogno che la figura della profetessa
Cassandra portasse ardenti fiamme:"Qui cercate

Troia;
questa è la patria, disse. E' tempo ormai le la cosa si compia,
nessuna esitazione a tanti prodigi. Ecco

quattro altari per
Nettuno; il dio stesso offre fiaccole e coraggio"
Ricordando queste cose, per prima afferra con

forza il fuoco
nemico e sforzandosi, alzata la destra in alto, la scuote
e la scaglia. Bloccate (sono) le menti e

storditi i cuori
delle Troiane. Allora una delle tante, la più anziana,
Pirgo, nutrice regia dei tanti figli di

Priamo,
"Voi non avete Beroe, non è questa, o madri, Retea
moglie di Doriclo; notate i segni della divina bellezza
e

gli occhi ardenti, quale spirito in lei che avanza,
quale volto e suono di voce o passo.
Io stessa, partita, ho lasciato

poco fa Beroe
malata, addolorandosi perché lei sola mancava a tale
cerimonia e non offrisse meritati riti ad

Anchise".Così parlò.
Ma le madri dapprima esitanti con occhi malevoli
guardavano le navi, incerte tra il misero

amore
della terra presente ed i regni che chiamavano coi fati
quando la dea con ali appaiate si alzò per il cielo
e

con la fuga segnò sotto le nubi un grande arco.
Allora attonite per i prodigi e spinte dal furore
gridano, afferrano il

fuoco dai focolari interni,
parte spogliano gli altari, gettano fronda, virgulti
e fiaccole.Vulcano infuria, a briglie

sciolte,
tra i banchi, i remi e le poppe d'abete, dipinte.

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