Testo originale
Iamque fere mediam caeli Nox umida metam
contigerat, placida
laxabant membra quiete
sub remis fusi per dura sedilia nautae,
cum levis aetheriis delapsus Somnus ab astris
aera
dimovit tenebrosum et dispulit umbras,
te, Palinure, petens, tibi somnia tristia portans
insonti; puppique deus
consedit in alta
Phorbanti similis funditque has ore loquelas:
‘Iaside Palinure, ferunt ipsa aequora classem,
aequatae spirant aurae, datur hora quieti.
pone caput fessosque oculos furare labori.
ipse ego paulisper pro te tua
munera inibo.’
cui vix attollens Palinurus lumina fatur:
‘mene salis placidi vultum fluctusque quietos
ignorare iubes? mene huic confidere monstro?
Aenean credam quid enim? fallacibus auris
et caeli totiens deceptus
fraude sereni?’
talia dicta dabat, clavumque adfixus et haerens
nusquam amittebat oculosque sub astra tenebat.
ecce deus ramum Lethaeo rore madentem
vique soporatum Stygia super utraque quassat
tempora, cunctantique natantia
lumina solvit.
vix primos inopina quies laxaverat artus,
et super incumbens cum puppis parte revulsa
cumque
gubernaclo liquidas proiecit in undas
praecipitem ac socios nequiquam saepe vocantem;
ipse volans tenuis se sustulit
ales ad auras.
currit iter tutum non setius aequore classis
promissisque patris Neptuni interrita fertur.
iamque
adeo scopulos Sirenum advecta subibat,
difficilis quondam multorumque ossibus albos
tum rauca adsiduo longe sale saxa
sonabant,
cum pater amisso fluitantem errare magistro
sensit, et ipse ratem nocturnis rexit in undis
multa gemens
casuque animum concussus amici:
‘o nimium caelo et pelago confise sereno,
nudus in ignota, Palinure, iacebis
harena.’
Versione Tradotta dell’Eneide Libro 5, vv. 835-871
Ormai l’umida Notte aveva quasi toccato la
meta nel mezzo
del cielo, i marinai rilassavano le membra nella placida quiete
sdraiati sotto i remi lungo i duri
sedili,
quando il Sonno scivolando leggero dagli eterei astri
smosse l’ aria tenebrosa e cacciò le ombre,
cercando
te, Plinuro, portando a te innocente i tristi
sogni; il dio si sedette sull’alta poppa
simile a Forbante e versa con
la bocca queste chiacchiere:
“Palinuro di Iasio, le stesse acque portano la flotta,
le arie spirano costanti, è dato
tempo al riposo.
Poggia la testa e ruba gli stanchi occhi alla fatica.
Io stesso un poco affronterò i tuoi doveri per
te.”
A stento alzandogli gli occhi Palinuro dice.
“Vuoi forse che io ignori il volto del placido mare
ed i quieti
flutti? Forse che io mi fidi di questo mostro?
Affiderei forse Enea? Tante volte ingannato da arie
fallaci e
dall’imbroglio del cielo sereno?”
Dava tali risposte, fisso ed attaccandosi mai lasciava
il timone e teneva gli occhi
sotto le stelle.
Ecco il dio scuote sopra entrambe le tempia un ramo
inzuppato di rugiada Letea e drogato di forza
Stigia, scioglie, a lui esitante, gli occhi natanti.
Appena la quiete improvvisa aveva rilassato le prime
membra,
quando saltandogli sopra, divelta una parte della poppa,
lo gettò nelle limpide onde col timone
a capo fitto
e spesso invocante invano i compagni;
egli alato, volando, si alzò leggero nell’aria.
Non di meno la flotta corre una
rotta sicura
imperterrita per le promesse del padre Nettuno s’avanza.
Ed ormai trasportata raggiungeva gli scogli
delle Sirene,
un tempo difficili e bianchi per le ossa di molti,
allora le rocce risuonavano roche lontano per il mare
incessante,
quando il padre capì che la nave ondeggiando errava, perduto
il pilota, lui stesso la resse nelle onde
notturne
molto gemendo e colpito in cuore dalla morte dell’amico:
“O Palinuro, fidatoti troppo del cielo e del
mare
sereno, nudo giacerai su sabbia ignota”.
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