[1] Longum mihi commeatum dederat mala valetudo; repente me invasit. ‘Quo genere?’ inquis. Prorsus merito
interrogas: adeo nullum mihi ignotum est. Uni tamen morbo quasi assignatus sum, quem quare Graeco nomine appellem nescio; satis
enim apte dici suspirium potest. Brevis autem valde et procellae similis est impetus; intra horam fere desinit: quis enim diu
exspirat? [2] Omnia corporis aut incommoda aut pericula per me transierunt: nullum mihi videtur molestius. Quidni? aliud enim
quidquid est aegrotare est, hoc animam egerere. Itaque medici hanc ‘meditationem mortis’ vocant; facit enim aliquando
spiritus ille quod saepe conatus est. Hilarem me putas haec tibi scribere quia effugi? [3] Tam ridicule facio, si hoc fine
quasi bona valetudine delector, quam ille, quisquis vicisse se putat cum vadimonium distulit.
Ego vero et in ipsa
suffocatione non desii cogitationibus laetis ac fortibus acquiescere. [4] ‘Quid hoc est?’ inquam ‘tam saepe mors
experitur me? Faciat: [at] ego illam diu expertus sum.’ ‘Quando?’ inquis. Antequam nascerer. Mors est non esse. Id
quale sit iam scio: hoc erit post me quod ante me fuit. Si quid in hac re tormenti est, necesse est et fuisse, antequam
prodiremus in lucem; atqui nullam sensimus tunc vexationem. [5] Rogo, non stultissimum dicas si quis existimet lucernae peius
esse cum exstincta est quam antequam accenditur? Nos quoque et exstinguimur et accendimur: medio illo tempore aliquid patimur,
utrimque vero alta securitas est. In hoc enim, mi Lucili, nisi fallor, erramus, quod mortem iudicamus sequi, cum illa et
praecesserit et secutura sit. Quidquid ante nos fuit mors est; quid enim refert non incipias an desinas, cum utriusque rei hic
sit effectus, non esse?
[6] His et eiusmodi exhortationibus – tacitis scilicet, nam verbis locus non erat – alloqui me non
desii; deinde paulatim suspirium illud, quod esse iam anhelitus coeperat, intervalla maiora fecit et retardatum est. At
remansit, nec adhuc, quamvis desierit, ex natura fluit spiritus; sentio haesitationem quandam eius et moram. Quomodo volet,
dummodo non ex animo suspirem. [7] Hoc tibi de me recipe: non trepidabo ad extrema, iam praeparatus sum, nihil cogito de die
toto. Illum tu lauda et imitare quem non piget mori, cum iuvet vivere: quae est enim virtus, cum eiciaris, exire? Tamen est et
hic virtus: eicior quidem, sed tamquam exeam. Et ideo numquam eicitur sapiens quia eici est inde expelli unde invitus recedas:
nihil invitus facit sapiens; necessitatem effugit, quia vult quod coactura est. Vale.
Versione tradotta
1 La malattia mi aveva accordato una lunga tregua; all'improvviso mi ha assalito
ancora. "Di che malattia parli?" chiederai. Domanda giusta: nessun male mi è sconosciuto. Ma a uno in particolare sono come
destinato: non so perché dovrei usare un termine greco: "difficoltà di respiro" è una definizione abbastanza adatta.
L'attacco è brevissimo e simile a una tempesta; finisce per lo più nel giro di un'ora: e chi mai potrebbe agonizzare a
lungo? 2 Su di me sono passati tutti i malanni e i pericoli cui è soggetto il nostro corpo, ma nessuno mi sembra più penoso. E
perché no? Qualunque altra infermità significa essere malati, questa è esalare l'anima. Perciò i medici la chiamano
"preparazione alla morte": un giorno il respiro riesce a fare quello che ha spesso tentato. 3 Se mi compiacessi di questa
stasi come di una guarigione sarei ridicolo, quanto un individuo che pensasse di aver vinto solamente perché è riuscito a
rimandare il processo.
Ma io, anche quando ero sul punto di soffocare, ho sempre trovato conforto in pensieri lieti e
forti. 4 "Che c'è?" mi dico, "La morte mi mette alla prova tanto spesso? Faccia pure: l'ho sperimentata a lungo."
"Quando?" mi chiedi. Prima di nascere. La morte è non esistere. E ormai so com'è: dopo di me sarà ciò che fu prima di me. Se
nella morte c'è tormento, ci fu necessariamente anche prima che venissimo alla luce; ma allora non sentimmo nessuna
sofferenza. 5 Ti chiedo: se uno pensasse che per una lucerna è peggio quando è spenta che prima di essere accesa, non lo
giudicheresti veramente stupido? Anche noi ci accendiamo e ci spegniamo: in quell'intervallo proviamo qualche sofferenza;
prima e dopo, invece, c'è una profonda serenità. Questo, se non m'inganno, è il nostro errore, Lucilio mio: crediamo che
la morte ci segua e, invece, ci ha preceduto e ci seguirà. Tutto quello che è stato prima di noi è morte; che importa se non
cominci oppure finisci, quando il risultato in entrambi i casi è questo: non esistere.
6 Ho continuato a rivolgere a
me stesso queste e altre esortazioni dello stesso tipo (in silenzio, s'intende: non potevo parlare); poi a poco a poco
quella difficoltà di respiro, che ormai cominciava a essere affanno, venne a intervalli maggiori e si arrestò. Ma ha lasciato
uno strascico e pur essendo finito l'attacco, la respirazione non è ancora tornata alla normalità; sento che è come
impacciata e impedita. Sia come sia, purché l'affanno non provenga dall'anima. 7 Tieni questo per certo: non trepiderò
nel momento supremo, sono ormai preparato, non faccio programmi per l'intera giornata. Tu apprezza e imita l'uomo a cui
non rincresce morire, quando vivere gli è gradito: che coraggio ci sarebbe a morire, se si è banditi dalla vita? Tuttavia,
anche in questo caso ci può essere coraggio: sì, sono scacciato, ma me ne vado come se lo facessi di mia volontà. Perciò il
saggio non sarà mai scacciato: essere scacciato significa essere allontanato da un luogo contro la propria volontà; ma il
saggio non fa niente contro la sua volontà; sfugge alla necessità perché vuole ciò che essa gli imporrà di fare. Stammi
bene.
- Letteratura Latina
- Epistulae Morales ad Lucilium di Seneca
- Seneca