Testo originale
Excisum Euboicae latus ingens rupis in antrum,
quo lati ducunt aditus centum,
ostia centum,
unde ruunt totidem voces, responsa Sibyllae.
ventum erat ad limen, cum virgo ‘poscere fata
tempus’ ait; ‘deus ecce deus.’ cui talia fanti
ante fores subito non vultus, non color unus,
non comptae
mansere comae; sed pectus anhelum,
et rabie fera corda tument, maiorque videri
nec mortale sonans, adflata est numine
quando
iam propiore dei. ‘cessas in vota precesque,
Tros’ ait ‘Aenea? cessas? neque enim ante dehiscent
attonitae magna ora domus.’ et talia fata
conticuit. gelidus Teucris per dura cucurrit
ossa tremor, funditque
preces rex pectore ab imo:
‘Phoebe, gravis Troiae semper miserate labores,
Dardana qui Paridis derexti tela manusque
corpus in Aeacidae, magnas obeuntia terras
tot maria intravi duce te penitusque repostas
Massylum gentis
praetentaque Syrtibus arva:
iam tandem Italiae fugientis prendimus oras.
hac Troiana tenus fuerit fortuna secuta;
vos quoque Pergameae iam fas est parcere genti,
dique deaeque omnes, quibus obstitit Ilium et ingens
gloria
Dardaniae. tuque, o sanctissima vates,
praescia venturi, da non indebita posco
regna meis fatis Latio considere Teucros
errantisque deos agitataque numina Troiae.
tum Phoebo et Triviae solido de marmore templum
instituam festosque dies
de nomine Phoebi.
te quoque magna manent regnis penetralia nostris:
hic ego namque tuas sortis arcanaque fata
dicta
meae genti ponam, lectosque sacrabo,
alma, viros. foliis tantum ne carmina manda,
ne turbata volent rapidis ludibria
ventis;
ipsa canas oro.’ finem dedit ore loquendi.
At Phoebi nondum patiens immanis in antro
bacchatur vates,
magnum si pectore possit
excussisse deum; tanto magis ille fatigat
os rabidum, fera corda domans, fingitque premendo.
ostia iamque domus patuere ingentia centum
sponte sua vatisque ferunt responsa per auras:
‘o tandem magnis
pelagi defuncte periclis
sed terrae graviora manent, in regna Lavini
Dardanidae venient mitte hanc de pectore curam,
sed non et venisse volent. bella, horrida bella,
et Thybrim multo spumantem sanguine cerno.
non Simois tibi nec
Xanthus nec Dorica castra
defuerint; alius Latio iam partus Achilles,
natus et ipse dea; nec Teucris addita Iuno
usquam aberit, cum tu supplex in rebus egenis
quas gentis Italum aut quas non oraveris urbes.
causa mali tanti
coniunx iterum hospita Teucris
externique iterum thalami.
tu ne cede malis, sed contra audentior ito,
qua tua te
Fortuna sinet. via prima salutis
quod minime reris Graia pandetur ab urbe.’
Talibus ex adyto dictis Cumaea Sibylla
horrendas canit ambages antroque remugit,
obscuris vera involvens: ea frena furenti
concutit et stimulos sub
pectore vertit Apollo.
Versione Tradotta dell’Eneide Libro 6, vv. 42-101
C’è un lato scavato della rupe Uboica in
caverna,
a cui menano cento vasti ingressi, cento porte
da cui corrono altrettante voci, responsi della Sibilla.
Si
era giunti alla soglia, quando la vergine:” E’ il momento
Di chiedere i fati, disse, Il dio, ecco, il dio”. A lei che
parla così
davanti ai battenti improvvisamente, non il volto, non
Uico il colore, né pettinate restarono le chiome, ma
il petto ansante
ed il cuore selvaggio si gonfia di rabbia e sembrava
più grande e non parlare umanamente, poiché si
espresse
essendo troppo vicina la potenza del dio.”Esiti nei voti
e nelle preghiere, disse, troiano Enea? Esiti? No si
apriranno
prima le grandi bocche della casa invasata” Dopo aver
parlato così, tacque. Un gelido brivido attraversò i
Teucri
lungo le dure ossa ed il re dice preghiere dal fondo del cuore:
“Febo, che sempre hai compianto i duri travagli
di Troia,
tu che guidasti le armi Dardanie e le mani di Paride contro
il corpo dell’ Eacide, attraversai tanti mari
che entrano in
grandi terre, sotto la tua guida, le genti de Massili nascoste all’nterno
ed i campi posti davanti
alle Sirti,
ormai raggiungiamo finalmente le spiagge fuggenti dell’Italia:
oh fin qui ci avesse seguiti la sorte
troiana;
ormai è giusto che voi perdoniate il popolo di Pergamo, o dei
e dee tutte, cui spiacque Ilio e la grande
gloria
della Dardania. E tu veneratissima profetessa,
conscia del futuro, concedi ( non chiedo regni non dovuti
per i miei fati) ai Teucri di fermarsi nel Lazio ed anche agli dei erranti
ed alle sconvolte potenze di Troia.
Allora costruirò per Febo e Trivia un tempio di forte
Marmo e giorni festivi in nome di Febo.
Grandi sacrari
attendono pure te nei nostri regni:
qui infatti io porrò le tue sorti e gli arcani segreti
predetti al mio popolo ed
eleggerò, o divina, uomini scelti.
Solo non affidare alle foglie i tuoi versi,
perché sconvolti non volino come giochi
per i rapidi venti.
Chiedo che tu stessa profetizzi.” Mise fine al parlare a voce.
Ma la profetessa non ancora soggetta
di Febo, gigantesca
Nell’antro si agita, se potesse scuotere dal petto
Il grandio: tanto più egli affatica la bocca
rabbiosa
Domando il cuore furioso e la plasma incalzando.
Ora le cento grandi porte della casa si apriron
Spontaneamente: per l’ampia aria trasmettono
I responsi della profetessa:
“O finalmente scampato ai grandi
pericoli del mare
(ma più pesanti restan quelli di terra) i Dardanidi verranno nel regno
di Lvinio (caccia tale affanno
dal cuore)
ma vorranno non esservi giunti. Vedo guerre, orribili guere,
ed il Tevere pumeggiante di molto sangue.
Non ti mancheranno Simoenta, Xanto e accampamenti dorici.
C’è un altro Achille partorito per il Lazio,
anch’egli nato da dea. Né mai Giunone mancherà
alleata contro i Teucri: quando tu supplice in situazioni penose,
quali popoli degli Itali e quali città non pregherai!
Causa di tanto male per i Teucri dinuovo una donna forestiera
Ancora nozze straniere.
Tu non cedere ai mali, ma più fiducioso avanza,
dove la tua sorte ti permetterà. La prima
via di salvezza,
cosa che non credi, si aprirà da una città greca.”
Con tali parole dalla caverna la Sibilla cumana
predice dubbi terribili e rimbomba nell’antro,
avvolgendo verità ad incertezze; Apollo alla furente
scuote
tali redini e muove pungoli nel petto.
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