L’incontro con Anchise è uno degli episodi più emozionanti e significativi dell’Eneide di Virgilio. Questo momento si svolge nel sesto libro del poema, quando Enea, l’eroe troiano, discende nell’Ade per incontrare l’anima del suo defunto padre, Anchise. Questa discesa agli inferi è un rito di passaggio fondamentale per Enea, poiché gli permette di ottenere la saggezza e la guida necessarie per adempiere al suo destino di fondare la futura città di Roma.
Anchise, rappresentato come un’ombra venerabile e saggia, offre a Enea una visione profetica del futuro glorioso dei suoi discendenti e del destino di Roma. Durante questo incontro, Anchise spiega a Enea il ruolo e la missione del popolo romano, sottolineando l’importanza della pietà, della giustizia e della leadership. Questo momento è cruciale non solo per Enea, ma anche per il lettore, poiché collega il passato eroico di Troia con il futuro imperiale di Roma.
La scena è ambientata in un paesaggio spettrale e mistico, dove le anime dei defunti vagano nell’oscurità. L’atmosfera è carica di emozioni, poiché Enea affronta il dolore della perdita e la responsabilità del suo compito. L’incontro con Anchise rappresenta una fusione perfetta tra il mito e la storia, dove la dimensione personale e quella collettiva si intrecciano per dare vita a uno dei momenti più memorabili della letteratura classica.
Eneide Libro 6, vv. 679-702 – l’incontro con Anchise – testo originale
At pater Anchises penitus convalle
virenti
inclusas animas superumque ad lumen ituras
lustrabat studio recolens, omnemque suorum
forte recensebat
numerum, carosque nepotes
fataque fortunasque virum moresque manusque.
isque ubi tendentem adversum per gramina vidit
Aenean, alacris palmas utrasque tetendit,
effusaeque genis lacrimae et vox excidit ore:
‘venisti tandem, tuaque
exspectata parenti
vicit iter durum pietas? datur ora tueri,
nate, tua et notas audire et reddere voces?
sic
equidem ducebam animo rebarque futurum
tempora dinumerans, nec me mea cura fefellit.
quas ego te terras et quanta per
aequora vectum
accipio. quantis iactatum, nate, periclis.
quam metui ne quid Libyae tibi regna nocerent.’
ille
autem: ‘tua me, genitor, tua tristis imago
saepius occurrens haec limina tendere adegit;
stant sale Tyrrheno
classes. da iungere dextram,
da, genitor, teque amplexu ne subtrahe nostro.’
sic memorans largo fletu simul ora
rigabat.
ter conatus ibi collo dare bracchia circum;
ter frustra comprensa manus effugit imago,
par levibus ventis
volucrique simillima somno.
Eneide Libro 6, vv. 679-702 – l’incontro con Anchise – traduzione
Ma il padre Anchise, nella profonda valle verdeggiante,
le anime rinchiuse e destinate alla luce dei cieli
con grande cura osservava, ricordando e considerando
tutti i suoi cari,
contando i numerosi discendenti,
e i destini e le fortune degli uomini, i loro costumi e le loro mani.
E quando vide Enea avanzare attraverso i prati,
tese le mani con gioia, lacrime scorrendo sulle guance,
e dalla bocca uscì la voce:
‘Sei arrivato finalmente, e la tua
pietà, tanto attesa dal padre,
ha vinto il duro viaggio? È concesso vedere il tuo volto,
figlio mio, e ascoltare e rispondere alle tue parole note?
Così
infatti pensavo e speravo sarebbe accaduto,
contando i tempi, e la mia preoccupazione non mi ha ingannato.
Quali terre e quali vasti mari
ti hanno portato,
figlio mio, dopo quanti pericoli sei giunto.
Quanto ho temuto che i regni di Libia ti facessero del male.’
Ma
egli rispose: ‘La tua immagine, padre, il tuo triste aspetto
apparendomi spesso mi spinse a venire qui;
le flotte sono ancorate nel Tirreno,
dammi la mano da stringere,
dammi, padre, e non sottrarti al mio abbraccio.’
Così dicendo, bagnava il volto con abbondanti lacrime.
Tre volte tentò di gettare le braccia intorno al collo;
tre volte l’immagine afferrata sfuggì invano dalle mani,
simile ai venti leggeri
e molto simile a un sogno volante.
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