Postero die concilio convocato consolatus cohortatusque est, ne se admodum animo demitterent neve perturbarentur incommodo.
Non virtute neque in acie vicisse Romanos, sed artificio quodam et scientia oppugnationis, cuius rei fuerint ipsi imperiti.
Errare, si qui in bello omnes secundos rerum proventus exspectent. Sibi numquam placuisse Avaricum defendi, cuius rei testes
ipsos haberet, sed factum imprudentia Biturigum et nimia obsequentia reliquorum, uti hoc incommodum acciperetur. Id tamen se
celeriter maioribus commodis sanaturum. Nam quae ab reliquis Gallis civitates dissentirent, has sua diligentia adiuncturum
atque unum consilium totius Galliae effecturum, cuius consensui ne orbis
quidem terrarum possit obsistere; idque se prope
iam effectum habere. Interea aequum esse ab iis communis salutis causa impetrari, ut castra munire instituerent, quo facilius
repentinos hostium impetus sustinere possent.
Versione tradotta
Il giorno dopo, convocata l’assemblea, confortò e rincuorò di non abbattersi troppo nello spirito e di non turbarsi per
la
disgrazia.
(Diceva che) i Romani non avevano vinto col valore ed in campo aperto, ma con un’astuzia e con la tecnica
dell’assedio, di cui essi erano stati sprovvisti.
Sbagliavano, se alcuni aspettassero in guerra come favorevoli tutti gli
avvenimenti delle cose.
A lui non era mai piaciuto che si difendesse Avarico, della cui cosa aveva loro stessi come
testimoni, ma era accaduto per la stoltezza dei Biturigi ed il troppa accondiscendenza degli altri, perché fosse ricevuta
questa perdita. Lui tuttavia avrebbe rimediato con maggiori vantaggi. Infatti le nazioni che dissentivano dagli altri Galli,
queste con la sua premura le avrebbe alleate ed avrebbe realizzato un unico piano di tutta la Gallia, al cui assenso neppure il
mondo intero potrebbe resistere; egli lo riteneva quasi già realizzato.
Intanto era giusto chiedere a loro per la salvezza
comune, di decidere di fortificare gli accampamenti, per sostenere più facilmente gli improvvisi attacchi dei nemici.
- De Bello Gallico
- Libro 7
- Cesare
- De Bello Gallico