Eneide, Libro 7, traduzione vv. 286-340 - Studentville

Eneide, Libro 7, traduzione vv. 286-340

Ecce autem Inachiis sese referebat ab Argis 6.286
saeva Iovis coniunx aurasque invecta tenebat,

et laetum Aenean classemque ex aethere longe
Dardaniam Siculo prospexit ab usque Pachyno.
moliri iam tecta videt,

iam fidere terrae, 290
deseruisse rates: stetit acri fixa dolore.
tum quassans caput haec effundit pectore dicta:

‘heu stirpem invisam et fatis contraria nostris
fata Phrygum. num Sigeis occumbere campis,
num capti potuere

capi? num incensa cremavit 295
Troia viros? medias acies mediosque per ignis
invenere viam. at, credo, mea numina tandem

fessa iacent, odiis aut exsaturata quievi.
quin etiam patria excussos infesta per undas
ausa sequi et profugis toto

me opponere ponto. 7.300
absumptae in Teucros vires caelique marisque.
quid Syrtes aut Scylla mihi, quid vasta Charybdis

profuit? optato conduntur Thybridis alveo
securi pelagi atque mei. Mars perdere gentem
immanem Lapithum valuit,

concessit in iras 305
ipse deum antiquam genitor Calydona Dianae,
quod scelus aut Lapithis tantum aut Calydone merente?

ast ego, magna Iovis coniunx, nil linquere inausum
quae potui infelix, quae memet in omnia verti,
vincor ab Aenea.

quod si mea numina non sunt 310
magna satis, dubitem haud equidem implorare quod usquam est:
flectere si nequeo superos,

Acheronta movebo.
non dabitur regnis, esto, prohibere Latinis,
atque immota manet fatis Lavinia coniunx:
at trahere

atque moras tantis licet addere rebus, 315
at licet amborum populos exscindere regum.
hac gener atque socer coeant

mercede suorum:
sanguine Troiano et Rutulo dotabere, virgo,
et Bellona manet te pronuba. nec face tantum
Cisseis

praegnas ignis enixa iugalis; 7.320
quin idem Veneri partus suus et Paris alter,
funestaeque iterum recidiva in Pergama

taedae.’
Haec ubi dicta dedit, terras horrenda petivit;
luctificam Allecto dirarum ab sede dearum
infernisque

ciet tenebris, cui tristia bella 325
iraeque insidiaeque et crimina noxia cordi.
odit et ipse pater Pluton, odere

sorores
Tartareae monstrum: tot sese vertit in ora,
tam saevae facies, tot pullulat atra colubris.
quam Iuno his

acuit verbis ac talia fatur: 330
‘hunc mihi da proprium, virgo sata Nocte, laborem,
hanc operam, ne noster honos

infractave cedat
fama loco, neu conubiis ambire Latinum
Aeneadae possint Italosve obsidere finis.
tu potes unanimos

armare in proelia fratres 335
atque odiis versare domos, tu verbera tectis
funereasque inferre faces, tibi nomina mille,

mille nocendi artes. fecundum concute pectus,
dissice compositam pacem, sere crimina belli;
arma velit poscatque

simul rapiatque iuventus.’ 340

Versione tradotta

Ecco però la crudele moglie di Giove

ritornava
dall'inachia Argo e , portata, teneva il cielo,
e dall'etere vide lontano, fin dal siculo Pachino

Enea lieto e la flotta Dardania.
Vede che già fondano case, già si affidan alla terra, 290
hanno abbandonate le navi:

si fermò colpita da acuto dolore.
Poi scotendo il capo versò dal petto queste parole:
"Ahi, stirpe odiata e destini dei

Frigi contrari
ai nostri. Forse poterono cadere sulle piane sigee,
forse che catturati esser presi? Forse che Troia

incendiata 295
bruciò gli uomini? In mezzo alle schere ed in mezzo ai fuochi
trovaron la via. Ma, credo, le mie potenze

alla fine
stanche giacciono, o sazia di odio mi quietai.
Anzi osai seguirli nemica cacciati dalla patria
per le onde

ed oppori ai profughi con tutto il mare 300
Consumate furono le forze del cielo e del mare contro i Teucri.
A che mi

servì la Sirte o Scilla, a che la vasta Cariddi?
Sicuri si nascondono nell'alveo desiderato del Tevere e
del mio mare.

Marte potè rovinare la sellvaggia stirpe
dei Lapiti, lo stesso padre degli dei concesse 305
l'antica Calidone alle

ire di Diana,
essendo colpevole Calidone o i Lapiti quale sì grave delitto?
Ma io, grande consorte di Giove, che

sventurata nulla
potei lasciare non osato, che mi rivolsi ad ogni cosa,
son vinta da Enea. Che se le mie potenze non

sono abbastanza 310
grandi, non dubiterei certo di chiedere uno
dovunque sia;
se non posso piegare i celesti, muoverò

l'Acheronte.
Non si concederà, e sia1, bloccare i regni latini,
e inamovibile per i fati resta Lavinia come

moglie:
ma si può tirare ed aggiungere indugi a cose sì grandi, 315
ma si può disgiungere i popoli dei due re.
A

questo prezzo dei loro s'uniscano genero e suocero:
avrai in dote sangue troiano e rutulo, ragazza,
Bellona ti resta

pronuba. Neppure solo Cisseide pregna
tanto di fiamma partorì fuochi nuziali 320
anzi lo stesso suo partorito, altro

Paride, per Venere e funeste
siano di nuovo le fiaccole (nuziali) per Pergamo rediviva.
Come espresse queste parole,

spaventosa si diresse a terra;
chiama dalle tenebre infernali, la sede delle dee crudeli,
la luttuosa Alletto, cui stanno

acuore le tristi guerre, 325
le ire, le insidie ed i delitti colpevoli.
Lo stesso padre Plutone odia il mostro,

l'odiano
le sorelle tartaree: si trasforma in tante facce,
Volti così crudeli, nera pullula di tanti serpenti.
E

Giunone la spronò con queste parole e così dice: 330
"Ora dammi, ragazza figlia della Notte, la tua speciale

attività,
questo lavoro, perché il nostro onore o la fama infranta si rtiri
dala paese, né con matrimoni gli Eneadi

possano circuire
Latino ed occupare i territori italici.
Tu puoi armare fratelli concordi per gli scontri 335
e con

gli odi rovinare le case, tu puoi dar colpi e funerre
fiamme ai tetti, tu hai mille pretesti,
mille capacità di nuocere.

Scuoti il fecondo petto,
spezza la pace pattuita, semina delitti di guerra;
la gioventù voglia e chieda le armi ed

insieme le prenda".

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