Caesar,
etsi discessum hostium animadvertere non poterat incendiis oppositis, tamen id consilium cum fugae causa initum suspicaretur,
legiones promovet, turmas mittit ad insequendum; ipse veritus insidias, ne forte in eodem loco subsistere hostis atque elicere
nostros in locum conaretur iniquum, tardius procedit. Equites cum intrare fumum et flammam densissimam timerent ac, si qui
cupidius intraverant, vix suorum ipsi priores partes animadverterent equorum, insidias veriti liberam facultatem sui recipiendi
Bellovacis dederunt. Ita fuga timoris simul calliditatisque plena sine ullo detrimento milia non amplius decem progressi hostes
loco munitissimo castra posuerunt. Inde cum saepe in insidiis equites peditesque disponerent, magna detrimenta Romanis in
pabulationibus inferebant.
Versione tradotta
Cesare, anche se non aveva potuto vedere la
ritirata dei nemici per le fiamme che gli si paravano dinnanzi, sospettava comunque che lo stratagemma servisse a una fuga.
Perciò, fa avanzare le legioni e lancia all'inseguimento gli squadroni di cavalleria. Temendo, però, un'imboscata, nel
caso che i nemici fossero rimasti nella loro posizione e cercassero solo di attirare i nostri in una zona svantaggiosa, procede
con una certa lentezza. I cavalieri non osavano spingersi nella densissima cortina di fumo e di fiamme; se qualcuno vi era
entrato per l'eccessivo slancio, vedeva a stento la testa del proprio cavallo; temendo, dunque, un agguato, lasciarono che i
Bellovaci si ritirassero senza difficoltà. Così, dopo una fuga dettata dal timore, ma al contempo piena di astuzia, senza aver
subito alcuna perdita, i nemici procedettero per non più di dieci miglia e si attestarono in una zona ben munita. Da lì,
appostandosi di continuo con i cavalieri e i fanti, infliggevano gravi perdite ai Romani in cerca di foraggio.
- Letteratura Latina
- Libro 8
- Aulo Irzio
- De Bello Gallico