Questi versi sono testimonianza di una fase ideologica della produzione di D'Annunzio, detta del superuomo, tratta dalla lettura di Nietzsche. In essa l'eroe viaggiatore per eccellenza, Ulisse, interpretato variamente dalla tradizione letteraria ora come esule tenace e sventurato (Omero nell'Iliade) ora come temerario scopritore di verità precluse all'uomo (Dante nel canto XXVI dell'Inferno) assume le sembianze del superuomo, eroe instancabile, che incarna la volontà di potenza, assimilabile storicamente alla missione bellica e colonizzatrice dell'Italia di inizio secolo. Ulisse navigatore appare in grado di dominare con la sua energia gli avversi elementi della natura, proseguendo vittoriosamente la sua solitaria lotta contro il mare implacabile. Il poeta chiede ad Ulisse di essere messo alla prova, di poter divenire suo coraggioso compagno di viaggio e di conquiste, di partecipare, almeno in piccola parte, alla tensione fortemente tragica che accompagna l'impresa gloriosa dell'eroe.
In questa moderna immagine di Ulisse si perde tutta la problematica e complessa attesa del mistero a cui apre il viaggio verso nuove mete e si recupera invece una grandezza sovrumana, di una mitica incarnazione semidivina a cui l'uomo non deve far altro che adeguarsi, ponendolo ad emblema ed a modello della sua stessa esistenza.
Incontrammo colui
che i Latini chiamano Ulisse,
nelle acque di Leucade, sotto
le rogge bianche rupi
che incombono al gorgo vorace,
presso l’isola macra
come corpo di rudi
ossa incrollabili estrutto
e sol d’ argentea cintura
precinto. Lui vedemmo
su la nave incavata. E reggeva
ei nel pugno la scotta
spiando i volubili venti,
silenzioso;e il pileo
èstile dei marinai
coprivagli il capo canuto,
la tunica breve il ginocchio
ferreo, la palpebra alquanto
l’occhio aguzzo; e vigile in ogni
muscolo era l’ infaticata
possa del magnanimo cuore.
Incontrammo colui
che i Latini chiamano Ulisse,
nel mare su cui si affaccia Santa Maura,
sotto le rocce rosse e bianche
che scendono a picco sul mare Ionio,
vicino all’isola pietrosa
come un corpo da ossa ruvide
costruito ma forti,
e solo dal mare argenteo
circondato . Lo vedemmo
su una nave ricurva. Egli teneva
con una una mano la scotta,
spiando i venti che mutavano direzione
in silenzio; il copricapo tipico dei marinai
gli copriva la testa dai bianchi capelli,
la veste corta copriva il ginocchio
robusto e la palpebra copriva
l’occhio vivace e vi era
in ogni muscolo la potenza infaticabile
data dalla magnanimità del cuore
E non i tripodi massicci,
non i lebeti rotondi
sotto i banchi del legno
luceano, i bei doni
d’ Alcinoo re dei Feaci,
né la veste né il manto
distesi ove colcarsi
e dormir potesse l’Eroe;
ma solo ei tolto s’avea l’arco
dall’allegra vendetta, l’arco
di vaste corna e di nervo
duro che teso stridette
come la rondine nunzia
del di, quando ei scelse il quadrello
a fieder la strozza del proco.
Sol con quell’arco e con la nera
sua nave, lungi dalla casa
d’alto colmigno sonora
d’industri telai, proseguiva
il suo necessario travaglio
contra l’implacabile Mare.
Né i grossi tripodi,
né i vasi rotondi,
che si trovavano sotto i banchi di legno,
risplendevano, i bei doni
del re dei Feaci, Alcinoo,
né il suo vestito, né il mantello
dove potesse stendersi
e riposare l’ eroe;
egli conservò solo l’ arco
con cui iniziò la vendetta, l'arco
costruito con vaste corna di cervo e con nervo
resistente, che implacabile sibilò;
proprio come la rondine annuncia
l'avvento del giorno, quando egli scelse l'arma
per colpire la gola dei proci.
Solo con quell'arco e con la nera
sua nave, lontano dalla sua dimora, dall'alto tetto,
risuonante della vita industriosa
dei telai di Penelope, avanzava
Ulisse nel suo viaggio faticoso,
inevitabile, voluto dal fato,
contro l’implacabile mare.
– O Laertiade- gridammo,
e il cuor ci balzava nel petto
come ai Coribanti dell’Ida
per una virtù furibonda
e il fegato acerrimo ardeva
– O Re degli Uomini, eversore
di mura, piloto di tutte
le sirti, ove navighi? A quali
meravigliosi perigli
conduci il legno tuo nero?
Liberi uomini siamo
e come tu la tua scotta
noi la vita nostra nel pugno
tegnamo, pronti a lasciarla
in bando o a tenderla ancora.
Ma, se un re volessimo avere,
te solo vorremmo
per re, te che sai mille vie.
Prendici nella tua nave
tuoi fedeli insino alla morte!-
Non pur degnò volgere il capo. -O figlio di Laerte – gridammo
e il cuore ci balzava in petto
come ai sacerdoti frigi che sul monte Ida
nell'esaltazione dei riti orgiastici
celebravano in onere di Cibele.
– O re degli uomini, distruttore
di città e conoscitore del mare,
dove sei diretto e a quali
straordinari pericoli
conduci la tua nera nave?
Siamo uomini liberi
e come tu manovri la sua scotta,
noi la nostra vita teniamo in pugno
e siam pronti a metterla
a rischio e a provarla ancora.
Ma se un re volessimo avere,
te solo vorremmo
per re, che conosci mille percorsi.
Accoglici sulla tua nave
fedeli a te fino alla morte! –
ulisse neppure degnò un cenno del capo.
Come a schiamazzo di vani
fanciulli, non volse egli il capo
canuto; e l’aletta vermiglia
el pileo gli palpitava
al vento su l’arida gota
che il tempo e il dolore
solcato avean di solchi
venerandi. –Odimi- io gridai
sul clamor dei cari compagni
-odimi, o Re di tempeste!
Tra costoro io sono il più forte.
Mettimi a prova. E, se tendo
l’arco tuo grande,
qual tuo pari prendimi teco
ma, s’io nol tendo, ignudo
tu configgimi alla tua prua-.
Si volse egli men disdegnoso
a quel giovine orgoglio
chiarosonante nel vento;
e il folgore degli occhi suoi
mi ferì per mezzo alla fronte.
Poi tese la scotta allo sforzo
del vento; e la vela regale
lontanar pel Ionio raggiante
guardammo in silenzio adunati.
Ma il cuor mio dai cari compagni
partito era per sempre;
ed eglino ergevano il capo
quasi dubitando che un giogo
fosse per scender su loro
intollerabile. Io tacqui
in disparte, e fui solo;
per sempre fui solo sul mare.
E in me solo credetti.
Uomo, io non credetti ad altra
virtù se non a quella
inesorabile d’un cuore
possente. E ame solo fedele
io fui, al mio solo disegno.
O pensieri, scintille
dell’Atto, faville del ferro
percosso, beltà dell’incude!
- 800
- Gabriele D'Annunzio
- Letteratura Italiana - 800