Gramsci ha meditato a lungo sul processo storico che, nel secolo XIX, ha prodotto la travagliata costituzione dello stato italiano unitario. A suo avviso, tale processo ò stato diretto fondamentalmente da forze moderate, e il cosiddetto Partito d’ azione (cioò il complesso di gruppi e di correnti che si richiamavano in parte a Mazzini e a Garibaldi) si ò rivelato incapace di svolgere un’opera adeguatamente incisiva e trasformatrice nel contesto politico del tempo. Quella risorgimentale ò stata, per usare una celebre espressione gramsciana, una ” rivoluzione mancata ” – e la causa e la natura di tale “mancanza” sono state essenzialmente di carattere sociale. In effetti il limite storico del Partito d’ azione va individuato nel fatto che ò rimasto sempre un partito borghese di èlite, non disposto o non capace di ricercare l’ appoggio dei ceti non borghesi. Quali ceti? E’ qui che Gramsci mostra la sua relativa eterodossia rispetto alle tesi canoniche del marxismo. Egli sa bene che nell’ Italia dell’ Ottocento non c’ era un proletariato industriale e tanto meno una classe operaia organizzata – ossia il solo soggetto sociale in grado, secondo i princìpi marxisti, di promuovere una trasformazione radicale della società . L’ autore dei Quaderni del carcere ritiene però che il risorgimento avrebbe potuto e dovuto ugualmente assumere un carattere rivoluzionario, acquisendo il consenso dei contadini. Proprio questi ultimi costituivano, infatti, quella massa popolare la cui partecipazione all’ azione risorgimentale le avrebbe dato un sostanziale contenuto sociale e un adeguato impulso rinnovatore. Gramsci precisa che il movimento democratico avrebbe realizzato tale disegno e tale strategia se fosse stato capace di farsi partito “giacobino”: se avesse saputo far propri gli interessi e le esigenze della classe contadina attraverso una riforma agraria volta a spezzare il latifondo e a creare un ceto di contadini piccoli proprietari. Proprio questo obiettivo era stato tenuto presente dai giacobini francesi, i quali avevano in tal modo evitato l’ isolamento delle città e convertito le campagne alla rivoluzione. Solo così essi erano riusciti a superare la situazione di minoranza elitaria in cui si erano trovati inizialmente, e a sconfiggere le forze della reazione aristocratica. Tutto ciò non significa per Gramsci che il risorgimento sia stato un processo storico completamente negativo. In effetti esso ha favorito non solo l’ unificazione della penisola ma anche la crescita della borghesia, gettando con ciò alcune premesse per lo sviluppo di una fase capitalistica in Italia. D’ altra parte tale sviluppo si ò realizzato in misura insoddisfacente; inoltre il nuovo stato si ò costituito su una base sia economico sociale che politica assai ristretta. In effetti, per un verso il neonato capitalismo (concentrato nelle sole regioni settentrionali), non ha potuto usufruire di un adeguato mercato per i suoi prodotti, a causa dell’ arretratezza economica della società italiana, soprattutto meridionale. Per un altro verso le masse indigenti (in primo luogo i ceti contadini) abbandonate sostanzialmente a loro stesse, non sono riuscite a divenire parte attiva della nuova compagine statuale. Quanto ai raggruppamenti politici anche più aperti e democratici, si sono rivelati incapaci di approfondire i loro legami con le forze sociali potenzialmente disponibili a un’ azione di reale emancipazione. Se tutto ciò ò vero, si tratta per Gramsci di elaborare le condizioni di una profonda trasformazione della realtà italiana emersa dal processo risorgimentale: una trasformazione il cui obiettivo finale deve essere quella rivoluzione sociale – anzi socialista – che il risorgimento non ha saputo compiere. A giudizio di Gramsci, tale rivoluzione potrà essere fatta solo attraverso un’ alleanza tra proletariato settentrionale e contadini meridionali: sono essi, infatti, i soggetti sociali concretamente interessati alla realizzazione di un progetto politico così impegnativo e radicale.
- Tesine