L’Italia: dallo Stato liberale al Fascismo
In Italia gli effetti della guerra furono particolarmente gravi sia a causa degli squilibri economici esistenti fra Nord e Sud sia a causa della ristretta base sociale che escludeva di fatto dalla vita politica nazionale buona parte del mondo rurale. Era soprattutto la disoccupazione a minacciare la stabilità sociale e politica, aggravata ancor di più da un forte incremento demografico, dall’inflazione e dal crollo della lira.
L’inflazione non toccava solo la classe operaia ed i contadini più poveri, ma ormai investiva anche i ceti della piccola e media borghesia le cui fila si erano gonfiate numericamente specie a partire dallo sviluppo economico del primo ventennio del 1900.
Fra coloro che cercarono di incanalare in forme organizzate il malessere suscitato dalla crisi economica e dal risentimento verso lo Stato liberale vi fu Benito Mussolini, ex dirigente del PSI, espulso nel 1914 per la sua propaganda interventistica e nazionalistica. Egli a Milano, il 23 marzo del 1919, diede la vita al Movimento Fascista (FASCI di COMBATTIMENTO) abbastanza composito, ma che due anni dopo la sua fondazione si trasformò in vero e proprio partito politico.
Sempre nel 1919 in Italia andava affermandosi sempre più un’altra forza tendente alla disgregazione del preesistente Stato liberale: il NAZIONALISMO. Esso si venne affermando soprattutto a partire dalla Conferenza di Versailles, prendendo spunto dalle mutilate pretese italiane in fatto di spartizione dei territori al termine della prima guerra mondiale. La propaganda nazionalista presentava così all’opinione pubblica la visione di un’Italia che aveva «vinto la guerra ma perso la pace», alimentando il mito della cosiddetta «vittoria mutilata». Un tentativo di risposta fu quello attuato da Gabriele D’Annunzio che occupò la città di Fiume, nell’irredenta Dalmazia, in risposta alla debolezza dimostrata dalla delegazione italiana alle trattative di pace francesi.
Questa situazione ebbe delle ripercussioni molto forti sul piano politico: infatti alle elezioni del 1919 i partiti popolari, quello cattolico e socialista, registrarono un importante successo. Tuttavia l’acuirsi della crisi economica portò ad un duro scontro di classe che si prolungò per un biennio (cosiddetto «BIENNIO ROSSO») e che ebbe la sua manifestazione più importante nell’occupazione delle fabbriche. Al termine di quest’ondata di scioperi che, va ricordato, non ebbero carattere offensivo, ma semmai si snodarono su binari difensivi, la situazione in cui l’Italia versava era stazionaria: lo stesso governo di Giovanni Giolitti, tornato al potere nel 1920, non fu in grado di offrire delle soluzioni accettabili, stretto com’era tra agitazioni di massa, ostilità dei partiti popolari e sfiducia dei ceti medi.
Fu così che tra la fine del 1921 e gli inizi del 1922, anche a causa del tentativo di Giolitti di arginare la crisi inasprendo la tassazione sui capitali e sui profitti, il Paese si avviò verso la svolta reazionaria tanto paventata da Antonio Gramsci. Gran parte della borghesia imprenditoriale e della proprietà fondiaria si avvicinò così alla destra più aggressiva coagulata attorno al movimento fascista.
I fascisti di Mussolini erano lo specchio di quella classe dirigente che voleva normalizzare la situazione del Paese in modo autoritario con la sconfitta violenta del movimento operaio. Fu per conseguire questo scopo che il movimento fascista istituì squadre militari d’azione, che avevano lo scopo di scatenare spedizioni punitive contro sedi di partito e di giornali, cooperative, case del popolo, incendiando, uccidendo e devastando. Le campagne più che le città divennero teatro di queste azioni che rischiarono di trascinare l’Italia nella guerra civile.
In un momento così cruciale si inserì una profonda crisi del movimento operaio e del movimento socialista, crisi che culminò con la scissione socialista nelle sue due anime: quella comunista nel 1921 e quella riformista nel 1922.
Mussolini intuì subito che era giunto il momento della svolta; nonostante avesse ottenuto una scarsa rappresentanza elettorale all’interno del blocco nazionale alle elezioni del 1921, il Partito Fascista si trovava in una situazione favorevole per via del fatto che era indispensabile ai liberali, godeva della neutralità dei cattolici e si trovava di fronte un movimento socialista debole e diviso. Al Congresso Nazionale Fascista del 1922 a Napoli, venne organizzato un colpo di forza contro l’inetto governo, la cosiddetta «marcia su Roma». Il re Vittorio Emanuele III si decise così, di fronte alle squadre che da tutto il Paese affluivano verso la Capitale, a richiamare Mussolini a Roma (egli scaltramente aveva seguito gli eventi da Milano) affidandogli il compito di formare il nuovo governo (28 ottobre 1922).
Il volto autoritario del nuovo regime maturò nel giro di pochi anni: nacquero così il Gran Consiglio del Fascismo, cui vennero affidate numerose funzioni prima attribuite al Parlamento, e la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale incaricata della difesa del regime, in cui confluirono le squadre d’assalto.
Le elezioni del 1924 assicurarono la vittoria fascista, grazie anche ai brogli ed alle intimidazioni che ne accompagnarono lo svolgimento. Il deputato socialista Giacomo Matteotti, che denunciò in Parlamento quanto si era verificato fu, per rappresaglia, rapito ed ucciso da emissari fascisti. Il delitto provocò grande sdegno in tutto il Paese, ma Mussolini ebbe l’appoggio del re ed il Fascismo e ne uscì indenne. Alcuni parlamentari per protesta morale abbandonarono la Camera (SECESSIONE dell’AVENTINO), ma questo rimase un gesto simbolico senza conseguenze.
Superata la bufera generata dal delitto Matteotti, fra il 1925 ed il 1926 vennero dichiarati illegali i partiti antifascisti ed instaurato il Tribunale speciale, strumento col lo scopo di perseguire l’opposizione; vennero sciolti i sindacati e fu vietato il diritto di sciopero.
Sul piano economico, fino al 1926, il Governo di Mussolini percorse le stesse vie dei governi prefascisti: una politica liberistica accompagnata da una serie di provvedimenti, soprattutto di natura fiscale, per agevolare le attività imprenditoriali. Vennero lanciate le «battaglia del grano» e la «bonifica integrale» volte a ridurre la dipendenza alimentare dalle esportazioni.
Nel 1926 si ebbe la svolta radicale. Al liberismo subentrò il protezionismo più rigido che fu lo scenario di un’ardita rivalutazione della lira. Era questo il tentativo fascista di porre fine all’inflazione e di promuovere la ripresa della grande industria chimica, meccanica e siderurgica debitrice verso l’estero. Questo periodo passò alla storia col nome di «QUOTA 90» (90 lire per una sterlina invece che 120/125 secondo i cambi del 1925). «QUOTA 90» ebbe un duplice effetto: da un lato colpì duramente tutti quei comparti economici particolarmente legati alle esportazioni (come il tessile ed il meccanico); dall’altro, attraverso una politica di rigorosa difesa del risparmio, ampliò il consenso fascista presso i ceti medi e la piccola borghesia urbana e rurale.
Il rafforzamento del regime fu incoraggiato anche dall’appoggio della Chiesa, con la quale Mussolini, a nome dello Stato Italiano stipulò i Patti Lateranensi (11 febbraio 1929) in virtù dei quali veniva riconosciuta alla Chiesa la sovranità sul Vaticano, e la religione cattolica venne dichiarata religione di Stato.
In campo internazionale il Fascismo trovò largo credito grazie soprattutto alla sua dichiarata avversione al Comunismo.
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