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L'Italia di Crispi

Il governo di Francesco Crispi in Italia.
Il governo di Francesco Crispi in Italia.

Negli anni della CRISI AGRARIA, in Italia si formò un nuovo blocco sociale contemporaneamente alla scelta protezionistica ed ai primi tentativi di espansione coloniale.

Si trattò di un'alleanza fra la borghesia industriale, di recente formazione, ed i grandi proprietari terrieri del Nord e del Sud. Sul piano politico l'uomo di spicco di questo nuovo blocco sociale fu Francesco Crispi, vero leader politico dei pochi gruppi imprenditoriali del Sud.

Crispi giunse a capo del Governo nel 1887 ed avviò una politica autoritaria accentrando su di sé quasi tutti i poteri. Represse con grande fermezza ogni movimento popolare che in quei giorni era rappresentato soprattutto dai lavoratori che diedero vita a scioperi ed a vasti movimenti di piazza per protestare contro il rincaro dei prezzi dei generi di prima necessità, dovuto alla politica protezionistica crispina.

Crispi usò il pugno di ferro per reprimere il malcontento popolare. Nel 1893 inasprì la legislazione contro le organizzazioni operaie, compreso il PSI di Turati, Bissolati e Costa. Tuttavia venne colpito anche il MOVIMENTO SOCIALE CATTOLICO; infatti, nel decennio crispino si assistette all'ingresso dei cattolici nella vita politica e sociale della nazione. In realtà, tenuto conto del divieto del Papa ai fedeli di partecipare alla politica, l'azione cattolica si sviluppò prevalentemente in campo sociale.

Il 15 maggio 1891, il Papa Leone XIII emanò la famosa enciclica RERUM NOVARUM (o delle cose nuove), nella quale, non solo veniva riconosciuta l'esigenza di una più equa distribuzione della ricchezza, ma anche la legittimità per i lavoratori di riunirsi ed organizzarsi in sindacati. Sulla scorta di queste idee, il movimento cattolico registrò un notevole aumento degli aderenti, rivaleggiando addirittura col movimento socialista. Si vennero sempre più attenuando le chiusure imposte dalla Chiesa per la partecipazione alla vita politica.

Una delle linee guida del governo crispino concerneva l'acquisizione di nuove colonie, divenute ormai indispensabili per il bisogno di mercati di sbocco e d'approvvigionamento del nuovo capitalismo italiano. Riprese così l'espansione coloniale in Abissinia, che però segnò la sconfitta italiana ad Amba Alagi, a Makallè e ad Adua: Crispi rassegnò le dimissioni e si esaurì la seconda fase della politica coloniale italiana. Cominciò così una lunga crisi che si protrasse per 5 anni. Il malcontento non tardò ad esplodere prima nelle campagne, poi nelle città. La risposta del Governo fu durissima: Di Rudinì, succeduto a Crispi, mandò il generale Bava Beccaris a sedare il tumulto operaio a Milano: l'operazione costò la vita di decine di persone. L'atteggiamento di Umberto I che decorò al valor militare Bava Beccaris, suscitò la protesta dell'opinione pubblica, di fronte alla quale DiRudinì si dimise. Il re allora chiamò alla guida del Governo il generale Luigi Girolamo Pelloux; questi decise subito di limitare la libertà di stampa e di riunione e di fronte all'opposizione parlamentare, che ricorse anche all'ostruzionismo per impedire l'approvazione delle leggi liberticide, sciolse le Camere e si appellò agli elettori. Ma le elezioni fecero avanzare una decisa avanzata della Sinistra. Pelloux si dimise ed il nuovo Presidente del Consiglio, Saracco, cercò di avviare una politica di riconciliazione nazionale.

Il 29 luglio 1900 Umberto I fu assassinato a Monza dall'anarchico Gaetano Bresci, e ad egli succedette al trono il figlio Vittorio Emanuele III, che nominò Primo Ministro Zanardelli, leader della sinistra parlamentare.

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