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Lo schiavo romano

La situazione degli schiavi a Roma.

La schiavitù ha la massima diffusione soltanto in alcune città: quelle dove grandi riforme hanno fatto sparire la massa degli asserviti locali; dopo le riforme dell'epoca arcaica, che hanno allargato il corpo dei cittadini, gli Ateniesi non dispongono più nell'Attica stessa, di un'equivalente massa di dipendenti. Per colmare questa lacuna si moltiplicano rapidamente gli schiavi provenienti soprattutto dall'esterno.

A Roma si viene a creare una situazione simile che richiede lo sfruttamento di stranieri ridotti in schiavitù. La perdita totale di libertà caratterizza lo schiavo; il modo di vivere del cittadino implica il tempo libero che permette di dedicarsi alle attività creative, a cominciare dalla vita politica; la condizione di schiavo è caratterizzata invece dalla assenza di tempo libero: come un animale domestico, egli lavora, e, per ricostituire le sue forze per il lavoro, mangia e dorme. Si identifica con la sua funzione: è per il padrone ciò che il bue è per il povero, è un oggetto animato che fa parte della proprietà; egli è venduto con le stesse norme di un appezzamento di terreno, è incluso, in un lascito, tra utensili e animale. Nelle città greche, di frequente, una sola e stessa legge si applica tanto agli schiavi quanto agli animali domestici, e questa associazione si ritrova spesso nel diritto romano dove varie volte si equiparano fughe di schiavi a perdite di bestiame. Rimane innanzitutto un oggetto, una res mobilis.

Un primo dato essenziale è la grande eterogeneità che caratterizza il mondo degli schiavi. C'è da fare una distinzione fra gli schiavi della familia rustica (schiavi delle campagne) e quelli della familia urbana (schiavi della città). Le forze della familia rustica sono interamente dedicate alla produzione, mentre nella familia urbana l'organizzazione del lavoro è radicalmente diversa. Anzitutto, numerosi schiavi sfuggono a ogni controllo diretto e permanente, poiché sono incaricati di gestire affari vari, botteghe o imprese artigianali a beneficio del padrone; essi godono quindi di una autonomia che non ha paragone nelle campagne. In queste condizioni molto meno dure, la parola famiglia, che comprende sia i parenti che gli schiavi, sembra prendere una dimensione affettiva reale. Il buono stato di uno schiavo è anzitutto una buona notizia che riguarda la prosperità del padrone.

Due cose dunque risultano chiare. In primo luogo, uno schiavo è uno schiavo, vale a dire, fondamentalmente, uno che non è padrone del suo destino e la cui situazione, per quanto dolce in certe circostanze, può sempre essere radicalmente rimessa in discussione dalla semplice volontà del padrone. In secondo luogo, anche se lo schiavo non è arbitro del suo destino, è evidente che la sua sorte è estremamente variabile. L'eterogeneità del mondo servile comprende tutta una sottile gerarchia sanzionata dall'esperienza: giuristi come Paolo e Ulpiano, ambedue dell'epoca severiana, precisano che gli schiavi devono essere nutriti e vestiti secondo il loro rango.

Nel corso della storia ci sono stati cambiamenti ed evoluzioni: nel III secolo a.c. nasce un sistema economico basato sullo sfruttamento della schiavitù: lo schiavo viene inserito in un'unità di produzione e diventa un ingranaggio di un processo produttivo che non riesce a comprendere; dopo rivolte schiavistiche e sconvolgimenti politici il sistema schiavistico ristagna fino al II secolo d.C.: è in quest'epoca (II-III sec.) che avvengono cambiamenti radicali del sistema schiavistico, evidenti nelle campagne, dove numerosi proprietari abbandonarono lo sfruttamento diretto e affidarono ai dipendenti la gestione delle loro terre, divise in poderi. Gli schiavi svolgono così un ruolo importante nella gestione delle proprietà assumendo responsabilità nella sorveglianza e nella gestione dei fondi oppure incaricandosi della conduzione di terre prese in fitto dal proprietario.

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