La prima guerra mondiale ed il drammatico dopoguerra segnano definitivamente il declino dello Stato liberale e delle sue istituzioni; declino che peraltro era già in corso da parecchio tempo e trova nella guerra e nell'immediato dopoguerra il suo tragico momento culminante. Per ricorrere ad un'immagine, si potrebbe concepire lo Stato liberale italiano come un edificio ormai vacillante che viene fatto crollare dal forte urto assestatogli dalla prima guerra mondiale e dagli avvenimenti immediatamente successivi ad essa. Si tratta dunque di esaminare, ancor prima della "spallata" finale, quegli elementi che progressivamente intaccarono l' "edificio" dello Stato liberale. Il fatto stesso che esso sorse relativamente tardi rispetto a Paesi politicamente più evoluti (quali la Francia e, soprattutto, l'Inghilterra) gli conferì quell'inevitabile instabilità che farà sì che nei momenti più difficili esso non saprà resistere e dovrà essere smantellato brutalmente. Queste considerazioni, valide per la realtà italiana e per altri Paesi pervenuti tardi alle istituzioni liberali, si intrecciano con quelle, di carattere più teorico, secondo cui l'irresistibile massificazione della seconda metà dell'Ottocento avrebbe portato ad un graduale dileguarsi dello Stato liberale e ad una sempre maggiore adesione ai partiti di massa: la sempre più consistente partecipazione delle masse alla vita politica coniugata con l'affermarsi del sistema proporzionale (il più favorevole ai partiti di massa) avrebbe messo inevitabilmente in crisi il sistema liberale, legato indissolubilmente al sistema uninominale e lungi da ogni estremismo ideologico. E infatti, il regime liberale stava sempre più diventando, nella seconda metà dell'Ottocento, incompatibile con il nascente irrazionalismo, avverso alla ragione e ai suoi dogmi propugnati dai Positivisti, e con il sempre più accentuato scontro di classe: come sottolineò Marx, proletari e borghesi, dopo aver vigorosamente annientato insieme l'aristocrazia, avevano aperto la strada allo scontro di classe moderno; gli alleati si trovavano ora a fronteggiarsi come acerrimi nemici e il liberalismo, che aveva rappresentato l'arma del progresso contro l'arsenale reazionario dell'aristocrazia, pareva ora del tutto inadeguato per i nuovi conflitti.
Esso fu pertanto surclassato, negli anni a venire, da nuove armi: le masse di diseredati sfruttati dal sistema capitalistico andavano sempre più abbracciando le tesi comunisteggianti di uguaglianza e democrazia radicale ed erano pronte, per ottenere ciò che desideravano, ad imbracciare i fucili e a scendere sulle piazze per fare la rivoluzione; la nutrita schiera dei borghesi, temendo gli appetiti proletari, ripiegava sempre più su posizioni di estrema Destra, perdendo così del tutto quell'impeto rivoluzionario con cui aveva abbattuto l'aristocrazia e cristallizzandosi in misura sempre maggiore in posizioni reazionarie.
Del resto la stesa crisi degli anni '70 dell'Ottocento aveva dimostrato chiaramente come lo Stato liberale fosse completamente inadeguato con la nuova temperie culturale. E in Italia la situazione era più drammatica che altrove: lo Stato liberale, amministrato prima da Crispi, poi da Giolitti, si sentiva ormai senza ossigeno e senza interlocutori. E così Giolitti dovette tentare in tutti i modi di frenare il più possibile quella crisi che stava travolgendo il liberalismo e le sue istituzioni e che presto l'avrebbe fatto saltare: non gli rimase altro da fare che tentare il dialogo ora con il movimento socialista, ora con quello nazionalista (favorevole all'imperialismo e avverso ad ogni forma di uguaglianza) a seconda delle circostanze, cercando di dare, in ogni caso, una veste parlamentare allo scontro sociale che si stava acuendo esponenzialmente. Il grande errore di Giolitti consisterà nell'illudersi di poter dialogare e di poter anzi legittimare, dandogli una patina di legalità , il movimento fascista e la sua rude violenza barbarica: Giolitti nutriva infatti la convinzione di poterlo ricondurre ad una sana dialettica parlamentare, smussandone le punte più acute. In questa prospettiva di estrema ambiguità , Giolitti potò ora appoggiare il movimento socialista effettuando concessioni, ora promuovere le sortite colonialistiche dei militaristi più ferventi e dei Cattolici più convinti, che in esse scorgevano un ritorno ai gloriosi tempi delle Crociate ai danni degli Infedeli. Ma il tentativo estremo di Giolitti di preservare lo Stato liberale naufragò alla vigilia dell'ingresso in guerra dell'Italia, che per molti versi rappresentò l'avvenimento che, hegelianamente, spalancò le porte alla nuova realtà sviluppatasi sotto la superficie dello Stato liberale agonizzante e che ad esso assestò la spallata finale.
Con il prevalere delle tesi interventiste, lo Stato liberale fu smantellato in favore di uno Stato vivamente militarizzato che, per molti versi, preludeva al regime fascista venturo: da quel momento in poi, lo Stato liberale uscì di scena e lasciò via libera allo scontro tra l'alternativa di uno stato socialista sul modello di quello sovietico e di uno di estrema Destra eversiva. E il clima che si respirava nei foschi anni della guerra lasciava sempre più presagire una possibile svolta di Destra: un'estesa compagine di intellettuali, capeggiati dalla scintillante retorica di D'Annunzio e di Marinetti, esaltati dalla guerra e dal suo eroismo, dalla sua capacità di determinare la superiorità o l'inferiorità degli uomini e dei popoli, si scatenò in fantasmagoriche magnificazione della forza militare e della violenza, mescolando in maniera bizzarra le tesi superomistiche di Nietzsche con quelle evoluzionistiche di Darwin.
Tanto più che la vita materiale in uno stato di belligeranza andava sempre più riflettendosi sulle coscienze, nelle quali si radicava ogni giorno di più un amore sfrenato ed ardente per il militarismo e per la vita di trincea: e infatti, con il primo conflitto mondiale, le masse furono per la prima volta trascinate per davvero nella storia, in quanto orde di proletari e borghesi furono chiamati al fronte e sempre più si rendeva necessario far appello al fronte interno, per convincerlo emotivamente e per avanzare una qualche giustificazione di una guerra apparentemente interminabile e che costava sempre più vite umane. Che la passione per il clima militare che si andava affermando in misura sempre maggiore si stesse impossessando della stragrande maggioranza degli uomini e degli intellettuali di allora ò provato, ad esempio, dall'entusiasmo con cui Thomas Mann e Sigmun Freud salutarono la guerra ("tutta la mia libido si riversa sugli austro- ungarici" scrisse Freud nel 1914).
Tuttavia, vi fu chi non si lasciò mai coinvolgere dalle prospettive militariste: ed è il caso di gran parte dei Socialisti, la cui attenzione si andava allora concentrando sulle vicende gloriose della Russia rivoluzionaria e sulla possibilità di "fare come la Russia" anche in Italia; e proprio il movimento socialista, all'indomani della fine della guerra, non esitava a mettere sotto accusa le promesse fatte a suo tempo per incitare le masse popolari ad sostenere lo sforzo bellico e che ora venivano puntualmente disattese. In questo clima, si acuirono le tensioni sociali sull'ala Sinistra e l'asse del movimento operaio si spostò sempre più verso la Sinistra rivoluzionaria, facendo così tramontare definitivamente ogni prospettiva liberale. Anche le posizioni della Destra vennero notevolmente accentuate, in quanto cresceva sempre più la rabbia e la smania di rivincita per colpa di quella che fu battezzata come "vittoria mutilata": l'Italia, trionfante nella prima guerra mondiale, non era stata ricompensata in modo corrispondente alle aspettative dei militaristi patriottici e per questo si infiammarono come non mai gli animi dei più ferventi imperialisti, tra cui spiccò, ancora una volta, la figura sprezzante di D'Annunzio che, insieme ad una nutrita schiera di nostalgici della trincea aizzati dalla retorica della vittoria mutilata, occupò militarmente la città di Fiume, ritenuta legittima proprietà italiana. Il che dimostra, al di là del fatto che la prospettiva di uno Stato liberale stesse tramontando, che cominciava ad avere un peso sempre maggiore la gestione privata delle milizie, anche in aperto contrasto con gli ordini dell'esercito ufficiale. L'avvento del Fascismo accentuerà in misura crescente questa tendenza estremista che, tra l'altro, mette in luce come l'apparato statale, in cui ormai l'esercito era pressochè inesistente, stesse sgretolandosi. Ma, soffermando per un attimo la nostra attenzione sul versante socialista, si può osservare come l'esasperazione del dopoguerra fosse sfociata in quello che ò passato alla storia sotto il nome di "biennio rosso": gli operai, mossi tanto dal desiderio di realizzare in Italia una situazione uguale a quella sovietica quanto dalla disperazione scaturita da una condizione di miseria insostenibile, occuparono trionfalmente le fabbriche, avvicinandosi in questo modo ai soviet russi e dimostrando come potessero produrre anche senza i padroni, finchò (anche in virtù di un'incapacità di organizzazione dettata da un'eccessiva frammentazione) Giolitti non intervenne e assestò il suo ultimo colpo da maestro, nel tentativo di attutire all'inverosimile le spinte e gli scossoni rivoluzionari, facendo siglare al movimento operaio un accordo con il quale si rinunciava a "fare come la Russia", e in cambio si ottenevano delle concessioni che, lette in trasparenza, rappresentarono una vera disfatta per il movimento operaio. Infatti, proprio quando si era ad un passo dalla rivoluzione sovietica, con l'accordo giolittiano si fece retromarcia e il fiume in piena della rivoluzione tornò nel suo alveo.
Dal fallimento del biennio rosso si affermò, come reazione, il Fascismo: si collocava anch'esso (alla stregua del Socialismo) come negazione dello Stato liberale morente; perfino i liberali più convinti, come Gobetti, si stavano accorgendo dell'inattualità di quel liberalismo puro propugnato a suo tempo da pensatori del calibro di Locke, Smith e Mill e che trovava in Benedetto Croce l'unico sostenitore fedele.
Proprio Gobetti, come i fratelli Rosselli, si fece promotore di un liberalismo carico di venature socialisteggianti, che coniugava sapientemente i princìpi del liberalismo con quelli del Socialismo, nella convinzione che senza equità sociale non potesse esservi una vera libertà e che senza libertà non potesse instaurarsi un Socialismo degno di tal nome. Tuttavia questa nuova corrente di pensiero fu tassativamente bocciata da Croce, il quale la etichettò sprezzantemente come "ircocervo", a sottolineare che si trattava di un'autentica fantasticheria, giacchò il Socialismo e il Liberalismo erano, a suo avviso, due correnti di pensiero inconciliabili. Hegelianamente, si potrebbe interpretare dialetticamente il passaggio triadico dal liberalismo fiorito con John Locke al Socialismo delineato da Marx e, infine, al Fascismo: la tesi è rappresentata dal liberalismo, inteso come stato in cui gli individui, alla stregua di atomi, contano come singoli e godono di una libertà meramente giuridica; l'antitesi consiste, invece, nel Socialismo, che del liberalismo ha colto le contraddizioni ineliminabili (prima fra tutte, che la libertà predicata dal liberalismo ò puramente formale); infine, in modo forse un po' forzato, il fascismo può essere letto, senza implicazioni assiologiche, come sintesi dei precedenti due momenti.
Dal Socialismo esso desume il carattere vagamente socialisteggiante di attenzione per la società che lo caratterizza, dal liberalismo mutua la base di consenso, ossia il ceto medio. E tuttavia il fascismo risulta depurato da alcuni caratteri tipici dei due momenti precedenti: del Socialismo rifiuta l'uguaglianza e la centralità del proletariato come ceto progressista; del liberalismo respinge la struttura di istituzione "liberale", in cui ciascuno può pacificamente esprimere la propria opinione e ritagliarsi un margine di libertà individuale.
- Storia