Lucrezio - Studentville

Lucrezio

Lucrezio è uno dei più grandi poeti della letteratura classica: egli rielabora con profonda riflessione personale e originale partecipazione le dottrine del filosofo greco Epicuro (fine sec. IV-sec. II a.C.) e le traspone con grandiose immagini poetiche, in cui la natura diventa la protagonista di un maestoso dramma.

[T2]Contesto storico[/T]

Un altro scrittore, contemporaneo di Cicerone, fu al pari di lui portato dall’inclemenza dei tempi, sebbene non per gli stessi motivi personali nè per il medesimo fine, a considerare la filosofia come un’evasione spirituale e un mezzo di giovare ai concittadini nelle calamità comuni. A differenza però del grande oratore non fu un uomo pubblico, buttato nelle tempeste politiche, ma visse isolato e anzi abborrente dai marosi civili, tutto fisso nel proposito di trovare alla vita dolorosa degli uomini una meta più alta che non fosse quella delle lotte e delle ambizioni donde nascono le guerre interne ed esterne e l’umanità, anzichè vivere in pace e felicità, si strazia in modo miserevole con le sue stesse mani.
Mentre le passioni civili imperversavano, e gli odi, le stragi e i sospetti di sempre nuove calamità avvolgevano nel terrore i cittadini, uno spirito ardente e infiammato dall’ansia di svelare ai contemporanei le condizioni per vivere in pace e in felicità, si levava in mezzo a loro, ad ammonirli dell’errore in cui si perdevano, a liberarli da tutte le superstizioni dalle quali erano ingannati e sviati, a indirizzarli alla giusta considerazione delle cose umane, che la sola filosofia sarebbe stata in grado di rivelare. Di tale missione si sentì investito un poeta, che volle
essere guida dei propri concittadini alla saggezza e alla verità. ed ambì farsene banditore entusiasta e ardente col mezzo della parola più persuasiva ed immaginosa, che convincesse e affascinasse.
Fu uno dei maggiori scrittori non solo dell’età cesariana, ma addirittura di tutta la letteratura latina e del mondo, emulatore (in tutt’ altro campo ed espressione) del contemporaneo Catullo: Tito Lucrezio Caro, autore del poema filosofico De rerum natura («La natura »).
La filosofia, alla quale egli chiedeva di compiere la nobile rivelazione, non era nessuna di quelle per cui aveva simpatizzato Cicerone, ma proprio quella di cui questi era stato il più accanito avversario: l’epicureismo. La dottrina che proponeva il piacere quale sommo bene fisico e spirituale, che spiegava in modo meccanicistico e sensistico la natura, che considerava gli uomini disancorati dal cielo e fine a sè stessi nella mortalità dell’anima composta come il corpo di elementi fisici, non appariva veramente la più atta all’indole e alle esigenze tradizionali romane, per cui l’individuo e lo Stato erano inscindibile unità. Ma se la dottrina del filosofo greco, fondata sulla fine del secolo IV in Atene, appariva poco congeniale all’indole conservatrice e anti-individualistica dello Stato romano tradizionalista, essa si presentava proprio come un antidoto e un’evasione in mezzo al suo sovvertimento, in un’epoca particolarmente oppressa dai mali politici e civili: miraggio e oasi di pace e di rinascita nel colmo della bufera.
Le circostanze erano veramente propizie al diffondersi in Roma di una credenza che in altri tempi vi avrebbe incontrato incompatibilità. Ma una dottrina che auspicasse il placarsi delle passioni in mezzo al loro più sfrenato infuriare, che insegnasse a considerare nel giusto valore, senza esaltazione nè ripudio, le cose mortali, che spegnesse il dolore e liberasse dagli incubi da cui è gravata la breve esistenza terrena, doveva trovare la sua temperie più conveniente nel colmo delle lotte fratricide, delle proscrizioni e degli intrighi, delle violenze d’una situazione politica sanguinaria e tumultuosa, se insegnava che la meta del vivere è invece la perfezione e la pace dello spirito e risiede nella conoscenza della verità che non illude nè delude. La liberazione dal dolore e dall’errore: tale la meta che la poesia doveva rendere accessibile alle menti sviate con il miracolo della parola. Lucrezio considerava se stesso l’apostolo della grande missione.

[T2]La vita[/T]

La vita di Tito Lucrezio Caro (98 ca-55 ca a.C.) è avvolta nel mistero perché il poeta, preso dagli studi, trascorse l’esistenza in solitudine e in isolamento. Indifferente per natura alla vita pubblica e mondana, non fece nulla per farsi conoscere e non pubblicò nemmeno il suo poema. Non si sa se avesse amici, anche se l’importanza data dai suoi versi all’amicizia fa pensare comunque che ne avesse: uno doveva essere quel Memmio propretore in Bitinia e in seguito condannato all’esilio per brogli elettorali, al quale dedicò il De rerum natura; probabilmente lo era Cicerone, che dopo la morte di Lucrezio ne pubblicò il suo poema. Carenti, molto posteriori e avvolte in un alone di leggenda sono le sue notizie biografiche: la fonte principale è rappresentata da un breve testo della Cronaca di san Girolamo (sec. IV d.C.) che, accogliendo notizie del De poetis di Svetonio (sec. II d.C.), afferma che Lucrezio fu colto da follia per aver assunto un filtro d’amore e, dopo aver composto negli intervalli di lucidità la sua opera, si suicidò a quarantaquattro anni. La lucida e dura analisi della passione erotica e la condanna dell’amore presente nei suoi versi sembrano indicare che nella vita di Lucrezio ci sarebbe stato un amore sventurato.
L’anno di nascita del poeta è posto da san Girolamo nel 96 o 94 a.C: la morte oscillerebbe, quindi, fra il 53 o il 51 a.C.; tuttavia in contrasto con quanto si ricava dalla testimonianza fornita dalla Vita di Virgilio del grammatico Elio Donato (sec. IV d.C.), che colloca la morte di Lucrezio nel 55 a.C.: in questo caso l’anno di nascita verrebbe anticipato. Pertanto si può collocare con una certa attendibilità la vita di Lucrezio tra il 98 e il 55 a.C., poiché è sicuro l’ultimo dato fornito da san Girolamo, cioè che Cicerone revisionò il poema di Lucrezio, rivedendone il manoscritto e curandone l’edizione. Di Cicerone, che pure non citò mai Lucrezio negli scritti filosofici in cui illustra le dottrine epicuree, resta anche un giudizio sul poeta contenuto in una lettera al fratello Quinto del febbraio 54; in tale data il De rerum natura era già stato letto (si trattava, di certo, di una lettura e non di una revisione) in vista della pubblicazione postuma, dunque Lucrezio doveva essere già defunto. Cicerone, riferendosi al poema lucreziano, ne riconosce sia il genio poetico sia l’arte con cui è scritto. Del tutto sconosciuto è il luogo di nascita di Lucrezio, da alcuni collocato in Campania da altri a Roma, e oscure sono la sua estrazione sociale e la formazione culturale; nessun contemporaneo parla di lui, a parte Cicerone. Viene ora anche comunemente accettata la notizia, relativa alla follia di Lucrezio, contestata da alcuni studiosi come astiosa invenzione creata ad arte o enfatizzata dalla propaganda cristiana, ostile al pensiero del poeta.

[T2]Il De rerum natura[/T]

Il capolavoro di Lucrezio è il poema epico-didascalico, di 7415 esametri intitolato De rerum natura (La natura), in cui viene esposta la filosofia epicurea, che proponeva il piacere quale sommo bene fisico e spirituale. L’epicureismo aveva appena iniziato a penetrare nel mondo romano e il poeta intendeva estenderne la diffusione. Il titolo segue da una parte la tradizione greca della poesia filosofica di Empedocle (sec. IV a.C.) e Parmenide (sec. V a.C.) e dall’altra riprende quello della massima opera di Epicuro, Sulla natura delle cose, perduta, cui il poeta latino si ispirò o direttamente all’originale o a sintesi posteriori curate dai di lui discepoli. L’opera è dedicata a un certo Gneo Memmio, da identificarsi con ogni probabilità con il propretore, dilettante di poesia, che Catullo tacciò di tirchieria.
Il De rerum natura è diviso in 6 libri, che iniziano ciascuno con una raffinata introduzione e che si articolano, con armonioso disegno architettonico, in tre gruppi di due libri ciascuno, rispettivamente dedicati alla fisica, all’antropologia e alla cosmologia. Lucrezio non intende dare una spiegazione fredda e razionale dei fenomeni dell’universo, ma una interpretazione poetica di essi, dell’armonioso aggregarsi e disgregarsi degli atomi, per cui tutte le cose nascono e muoiono, compreso l’uomo che fa parte del tutto, senza dispersione, perché nulla nasce dal nulla e nulla muore riducendosi al nulla. Lucrezio stesso chiarisce nel I libro la ragione per cui ha trattato una materia filosofica in forma poetica: vi è stato costretto perché altrimenti sarebbe stata troppo complicata per lo spirito poco speculativo dei romani.
L’uso dell’esametro era collegato alla tradizione greca della poesia didascalica. Per Lucrezio, Epicuro non fu soltanto il fondatore di una dottrina, ma un maestro di vita: numerosi passi del De rerum natura contengono un commosso omaggio al filosofo, presentato come un liberatore, un eroico combattente contro l’oscurantismo religioso. La prima apparizione della religione nel poema è simboleggiata infatti da un mostro che rivolge la sua terribile testa dal cielo verso la terra. Sulle tracce del suo pensiero, mediante l’analisi lucida e razionale della realtà, che porta a una visione di coerente materialismo l’uomo può liberarsi dalle superstizioni, dai pregiudizi e dagli errori, e quindi dalle inutili angosce che ne derivano: prime fra tutte il timore degli dei, che porta alla superstizione quando non al delitto, e la paura della morte. La morte è semplicemente il momento estremo che chiude un ciclo vitale; essa non presuppone affatto un aldilà di punizioni eterne e di sofferenze, che sono favole di poeti o, al massimo, proiezioni di angosce terrestri, come le ambizioni, le frustrazioni, le passioni, i rimorsi. La vita va abbandonata con la stessa disposizione serena con cui un convitato sazio si leva da un banchetto, grato per le gioie che ha eventualmente goduto o, in caso opposto, rasserenato per la liberazione dalle delusioni o dalle sofferenze che ha patito.

[T2]Il contenuto del De Rerum Natura[/T]

Il primo libro: la teoria atomica. Si apre con un ampio proemio costituito da un solenne inno a Venere, forza generatrice della natura, dea dell’amore, del piacere e della fecondità, protettrice e simbolo di pace e di gioia infinita, perché infonde l’ispirazione al poeta. L’invocazione alla divinità è un modo convenzionale di introdurre un poema, non contrasta con le convinzioni del poeta: gli dei, pur se esistono, non si curano delle vicende degli uomini. Dopo la dedica a Memmio segue un commosso elogio a Epicuro, che per primo si elevò contro la religione e rivelò la verità agli uomini, entrando nei segreti della natura. Il sacrificio di Ifigenia, immolata dal padre Agamennone in Aulide, dimostra che la religione fa compiere agli uomini i gesti più infami e malvagi. Per porre riparo ai timori e alle ossessioni delle pene eterne dell’oltretomba, agli interrogativi di quale natura sia l’anima, se essa finisca nelle cupe tenebre o trasmigri in altri esseri, che sono tutte creazioni di poeti per distruggere la felicità degli uomini, Lucrezio enuncia quindi il principio fondamentale delle teorie atomiche: ” mai nessuna cosa nasce dal nulla per virtù divina” e nulla si riduce al nulla, solo si trasforma. La vita è composta da un insieme di corpi primi, gli atomi, corporei, indivisibili e indistruttibili; quando si muore essi si disgregano e si muovono nel vuoto di un universo infinito. Materia e vuoto costituiscono dunque la natura. False sono le teorie dei presocratici, di Eraclito, di Empedocle e di Anassagora.
Il secondo libro: il clinamen. Una stupenda introduzione esalta la serenità imperturbabile del filosofo immune dall’ambizione e dal desiderio di ricchezza per i quali è infelice la maggior parte degli uomini. Lucrezio tratta quindi delle qualità degli atomi, che sono in continuo, velocissimo movimento in un vuoto senza ostacoli. Gli atomi si muovono dall’alto al basso e, grazie al clinamen, cioè all’inclinazione rispetto alla verticale, rimbalzano, si incontrano e si aggregano: la diversità delle loro forme e la molteplicità delle combinazioni generano la varietà delle cose. Questi corpi primi si muovono infiniti in uno universo infinito creando infiniti mondi; il libro si chiude con l’immagine di grande vigore poetico, che tutti i mondi sono soggetti al ciclo di nascita e di morte.

Il terzo libro: l’anima umana. Dopo un solenne elogio di Epicuro, il poeta espone la dottrina dell’anima umana. Lucrezio con incalzanti ragionamenti dimostra la sua mortalità. Essa si distingue in anima, che è il principio vitale sparso in tutto il corpo, e animus, cioè la mente razionale che ha sede nel petto; essi sono materiali, perché composti da atomi, sia pure sottilissimi e velocissimi. L’anima e il corpo sono uniti e non possono esistere separatamente: insieme nascono, crescono e muoiono. Quando muore il corpo muore anche l’anima: è quindi assurdo aver paura della morte e l’oltretomba è una grande fantasia.

Il quarto libro: i simulacra. Descrive il meccanismo delle varie funzioni del corpo, dei sensi, dei desideri, delle idee. Le sensazioni sono provocate da gruppi di atomi sottilissimi (simulacra) che si staccano dai diversi oggetti ed entrano nel corpo, dando origine alla vista, al tatto, all’udito, all’odorato, al gusto. Le diversità che si riscontrano nei sensi sono dovute alle varie forme dei simulacra e alla differenza dei corpi riceventi. Simulacra sottilissimi, vaganti per l’aria, sono all’origine non solo delle idee stesse, ma anche dei sogni, delle illusioni e delle cose inesistenti. Dopo aver spiegato che anche il bisogno di mangiare e di bere e la passione amorosa dipendono dagli atomi, il libro termina con la condanna dell’amore fisico.

Il quinto libro: la cosmologia e la vita sulla terra. Il poeta estende la sua visione a tutto l’universo: questo non fu creato dagli dei; il mondo non è eterno, è mortale e in esso non vi è posto per gli dei. Dal caos iniziale è avvenuta la creazione dei corpi celesti e della terra. Gli atomi si sono combinati secondo il peso e la forma: al centro la terra, l’aria nella zona superiore e, ancora più in alto, l’etere. Sono assurde le teorie di coloro che sostengono che gli astri, che sono divinità, e il mondo, che è sede degli dei, siano eterni: come hanno avuto un inizio così essi avranno una fine. Egli espone poi il sorgere e l’evoluzione della vita sulla terra, dai fiori e dagli alberi, agli animali e agli uomini; di grande potenza e solennità poetica è il quadro delle origini e del graduale incivilimento dell’umanità, le prime unioni, il sorgere del linguaggio e poi della società organizzata: dallo sgomento dell’ignoto e dall’ignoranza del vero nascono la fede negli dei e la credenza religiosa.

Il sesto libro: geofisica e meteorologia. Dopo l’elogio ad Atene che ha accolto Epicuro, il poeta descrive la formazione materialistica dei fenomeni metereologici, come le nuvole, le piogge, gli arcobaleni e, in particolare i tuoni, il fulmine e i lampi che sono attribuiti dall’umanità ignorante e superstiziosa alle divinità. Lucrezio tratta infine dei fenomeni terrestri, come l’origine dei terremoti o delle inondazioni stagionali del Nilo. Il poema termina con la descrizione della peste di Atene durante la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.): un tetro quadro di morte e di umana miseria che contrasta con la visione epicurea della vita serena e con quello della primavera e della nascita nell’iniziale invocazione a Venere.

[T2]L’interpretazione dell’opera[/T]

Una tesi interpretativa molto diffusa e errata fu quella formulata dal critico francese Patin, avverso al materialismo. Secondo Patin vi era un dissidio tra l’intenzione epicurea ottimista e l’insoddisfatta religiosità del poeta, che portava i lettori a scorgere nell’opera tracce di squilibrio mentale. Leggendo oggettivamente l’opera si può constatare invece che l’autore tende sempre ad argomentare razionalmente la propria verità , a trasmettere una dottrina di liberazione morale nella quale crede profondamente. È indubbio che nel poema hanno spazio anche descrizioni violentemente drammatiche. Il problema del pessimismo di Lucrezio occupa un ruolo centrale in buona parte della critica. Bisogna però respingere le presunte contraddizioni sistematiche e clamorose di Lucrezio rispetto a Epicuro, cercate nell’opera. Lucrezio ripete molto spesso che la ratio da lui esposta conduce alla serenità interiore. Eppure a volte questo razionalismo mostra i suoi limiti. Alcuni critici hanno proposto l’immagine di un Lucrezio dissidente nei confronti di un sistema filosofico dall’aspetto troppo sereno, ma impotente di fronte ad angosce primordiali: di qui la concezione di un Lucrezio assetato di fede. Certe incoerenze, risposte cercate ma non trovate, appaiono arricchimenti del testo: danno in più alla personalità poetica di Lucrezio una dimensione
di insoddisfazione amara.

[T2]L’epicureismo lucreziano[/T]

La libertà dalla superstizione religiosa nasce dalla concezione filosofica epicurea della natura materialistica del mondo. Quindi in tutto il poema vi è un attacco alla religione condotto con il massimo sforzo. Il timore della morte è la fonte di ogni male: l’uomo ha paura della morte come privazione di vita. Lucrezio, invece, la intende come cessazione di ogni attività, di ogni sensibilità, come semplice assenza di vita. Reputa questa insensata paura la causa scatenante di uno spasmodico desiderio di autoaffermazione che non fa altro che scatenare i vari conflitti per il potere e la ricchezza che portano all guerre civili. Lucrezio, pur riferendosi alla condizione universale dell’uomo, sembra indirizzarsi alle altre sfere della società romana che attraversa un periodo di profonda crisi dei valori. Dipinge la storia dell’evoluzione dell’uomo come afflitta dal complesso del gambero: auspica, o quantomeno idealizza, un ritorno alla semplicità primordiale in cui tutto è vissuto per quello che è, senza inutili paure. Per Lucrezio il piacere è costituito dall’assenza o cessazione del dolore; è un piacere statico, ottenibile con il soddisfacimento dei bisogni naturali.
Interpretazione diffusa è quella che vede nel poema di Lucrezio una buona dose di pessimismo dovuto alla stolta infelicità dell’uomo e della sua condizione: schiacciato dalle solenni, inevitabili e incombenti leggi della natura, compresso tra la vita e la morte, non vale un niente e non può fare altro che aspettare di essere schiacciato da meccanismi troppo grandi.

[T2]Il pessimismo lucreziano[/T]

Il messaggio positivo della poesia di Lucrezio è sembrato ad alcuni critici decisamente contraddetto dal pessimismo angoscioso evidente in parecchie parti dell’opera: dalla serie allucinata di immagini che accompagnano la visione della morte (benché intesa come pacificazione), alla raffigurazione desolata di una natura ostile e maligna, fino al quadro finale della peste che flagellò Atene all’epoca di Pericle (sec. V a.C.), dove l’analisi dello storico greco Tucidide (modello del passo lucreziano) è mirabilmente ripresa e trasposta in versi, ma con effetti di surrealistico orrore. Si è voluto dedurne un “tradimento” del razionalismo e del materialismo e soprattutto un anelito, non confessato e forse neppure consapevole, a una dimensione spirituale dell’essere. Ma la commozione del poeta sul dolore della vita e l’angosciosa consapevolezza delle continue sconfitte cui va incontro l’uomo coesistono sempre con la fiducia ottimistica nella filosofia e nella ragione, salvezza per l’umanità.

[T2]Il tema dell’amore il Lucrezio[/T]

Alla fine del libro quarto Lucrezio crea un trattato della fisiologia e della psicologia dell’ amore, che giunge a condannare la passione, che all’ amore è indissolubilmente legata. Anche qui Lucrezio non si stacca dalla dottrina di Epicuro: l’ amore va visto solo nell’ ottica di soddisfare i nostri istinti sessuali (perché non causano coinvolgimenti emotivi ); l’ amore inteso come sentimento, emozione
e passione è da evitare assolutamente, perché causa dolore. Così asserisce Lucrezio: ” conviene respingere da sé ciò che alimenta l’ amore e volgere la mente ad un altro oggetto e spandere in altri corpi, quali che siano, l’ umore raccolto e non trattenerlo essendo rivolto una volta per sempre all’ amore d’ una persona sola “. Se l’ amore passionale ha il difetto di condurre inevitabilmente l’ uomo al dolore, così l’ amore fisico ha il difetto di essere insaziabile, perché non può mai essere raggiunto completamente l’ oggetto del desiderio: ” cibo e bevanda sono assorbiti dentro le membra; e poiché possono occupare determinate parti, perciò la sete e la fame si saziano facilmente. Ma di una faccia umana e di un bel colorito nulla, di cui si possa godere, penetra nel corpo. …”. Mentre la sete e la fame possono essere placate ingerendo l’ oggetto fisico necessario, che va a colmare il vuoto che causa il desiderio, al contrario in amore non si può mai colmare quel vuoto interiore che provoca l’ atto sessuale, un vuoto che fa desiderare all’ uomo di penetrare e perdersi nell’ altro con tutto il corpo: per questo, e Lucrezio ne dà un’ attenta analisi, durante l’ amplesso sembra quasi che si cerchi di mangiare l’ altro, ” mischiando le salive e premendo coi denti le labbra “.
L’ amore è anche pericoloso perché spinge a scialacquare il patrimonio in regali, vestiti, gioielli, fastosi banchetti (“. .frattanto il patrimonio si dilegua e si converte in profumi babilonesi. .e bei sandali di Sicione. .e grandi smeraldi con la luce incastonati nell’ oro ” ), perché provoca nell’ amante attacchi di gelosia (“. .sorge qualcosa di amaro che pure tra i fiori angoscia. .perchè gli sembra che lei occhieggi o che il suo sguardo sia attratto da un altro e nel suo volto vede la traccia di un sorriso. .” ). Se si è caduti nella trappola dell’ amore è difficile uscirne, ma è possibile se l’ uomo non nasconde a sé stesso i difetti corporei e dell’ anima di colei di cui è innamorato. infatti la passione tende a nascondere i difetti della donna amata, o a tramutarli in rari pregi, così che ” la nera ha il colore del miele, la sudicia e fetida è disadorna, la corpulenta e smisurata è un prodigio ed è piena di maestà, la balbuziente cinguetta, la muta è pudica. ..”.
Tutto il passo emana un forte senso di disgusto, di amarezza, eppure, quando il poeta sembra volere negare definitivamente il conforto che l’ uomo che arde d’amore può trarre dalla passione, emerge un amore visto in chiave più serena e meno ingannatrice: “. . e non sempre sospira di finto amore una donna che abbracciata unisce il suo corpo al corpo dell’ uomo. …. spesso lo fa di cuore e cercando il comune piacere, lo invita a percorrere fino all’ estremo il cammino d’ amore “.

Traduzione e contestualizzazione di alcune parole chiave:
– muta cupido: l’ amore è un desiderio muto, perché si sviluppa in silenzio, poi scoppia all’
improvviso all’ interno dell’ animo umano, provocando sofferenza;
– dulcedo frigida cura: dolcezza, fredda cura; la passione d’ amore attraversa prima un periodo di
dolcezza, apparendo illusoriamente senza sofferenze, poi arriva un periodo pieno di dolore ;
– commoda sine poena: vantaggi senza pena, sono i piaceri che riserva un amore solamente fisico.
non presentano pene per chi pratica questo amore perchè è escluso ogni coinvolgimento emotivo;
– dira cuppedine: desiderio feroce, è quello che prende gli uomini caduti nella passione d’ amore,
un desideri che li porta a compiere gesti irrazionali;
– tabescunt vulnera caeco: ignorano le ferite segrete; la passione d’ amore crea nell’ uomo delle
ferite, ma al tempo stesso l’ innamorato è cieco e non vede, o non vuole vedere tali ferite;
– cavere ne inliciaris: stare attenti a non essere intrappolati; é molto facile cadere nella trappola
dell’ amore, spesso accade senza accorgersene ma, conoscendo i rischi che la passione d’ amore
comporta, è meglio cercare di evitare di innamorarsi ;
– vitae postscaena: retroscena della vita, sono i lati più oscuri delle donne, quelli che esse
nascondono per paura di non fare più innamorare gli uomini; quando questi retroscena vengono a
galla gli uomini, accecati e instupiditi dalla passione, li confondono come rari pregi ;
– muliercula deteriore forma corpore culto: donnetta, mediocre bellezza, cura del corpo;
Lucrezio sostiene che anche una donna poco piacente ma che curi il suo corpo può essere
apprezzata dagli uomini, perchè spesso l’ amore non nasce dalla bellezza ma dalla consuetudine.

[T2]Il problema religioso[/T]

L’ origine della religio è da attribuire ad una società di uomini in cui c’ erano condizioni favorevoli al suo sviluppo cioè non comprensione di molti fenomeni naturali, rapporti sociali basati sulla violenza e la forza. L’ idea dell’ esistenza di esseri superiori nacque dai sogni, in cui gli uomini vedevano essere con poteri a loro sconosciuti, esseri onnipotenti: dal vederli nei sogni ad immaginarne la reale esistenza il passo fu breve; dice Lucrezio che ” allora le stirpi dei mortali vedevano nelle menti durante la veglia eccellenti immagini di dei, e queste in sogno apparivano di ancor più mirabile corporatura. A queste attribuivano senso perchè pareva che proferissero parole superbe. ..e attribuivano loro vita eterna, perchè sempre la loro immagine si rinnovava e la forma rimaneva inalterata. .”. Il passo successivo fu imputare al loro operato le manifestazioni inspiegabili, come i fenomeni celesti e il ruotare delle stagioni. Per non scatenare le loro ire nacquero così i culti degli dei e si costruirono i luoghi di culto. Per Lucrezio l’ uomo, quando attribuì tali poteri agli dei, si autolesionò perchè si procurò solo timori e sofferenze: ” o misera stirpe dei mortali, quando ebbe assegnato tali poteri agli dei e aggiunto loro la collera acerba ! Quanti gemiti procurarono allora a sè stessi, quante sofferenze e lagrime ai nostri figli ! Non v’ è alcuna devozione nel mostrarsi col capo velato. ..devozione è piuttosto potere guardare tutto con mente serena “. La religione per Lucrezio ha portato più danni che vantaggi agli uomini, perchè in nome di essa sono stati compiuti delitti, misfatti, per esempio quello compiuto dal padre di Ifigenia, che sacrificò agli dei la figlia per potere avere buona sorte per le sue navi in partenza. Lucrezio attribuisce il grande merito di avere aperto gli occhi agli uomini sull’ inganno della religione al filosofo greco Epicuro, di cui lui ricalca le orme e il cui messaggio vuole portare nel mondo romano attraverso il “De rerum natura “.
Nonostante i suoi obiettivi anti religiosi Lucrezio apre il libro I con un’ invocazione a Venere, dea protettrice, ma tale preghiera non va interpretata come gesto incoerente, perchè Venere è qui intesa come forza creatrice della natura, ma anche perchè Venere è una delle dee più popolari, così Lucrezio vuole attirare i suoi lettori. Riporta poi Lucrezio una descrizione dei riti e delle superstizioni legate alla dea Cibele, ma Egli conclude affermando la vanità di tali riti perchè gli dei vivono in un altro mondo e si disinteressano totalmente di ciò che gli uomini fanno.

[T2]Lo stile e la fortuna[/T]

La grandezza del De rerum natura non sta nella sostanza filosofica, ma nella poesia, nell’entusiasmo con cui Lucrezio accoglie il pensiero di Epicuro, che avrebbe condotto lo spirito umano alla vittoria della verità.

[T2]Lo stile e la lingua filosofica[/T]

Cicerone ammirava in Lucrezio non solo l’acutezza del pensatore, ma anche grandi capacità di elaborazione artistica. La critica moderna giudicava lo stile del poeta troppo rude e legato all’uso arcaico, a tratti prosaico e ripetitivo, ma ha in seguito modificato questa prospettiva. Anche lo stile, come l’organizzazione della materia, doveva piegarsi al fine di persuadere il lettore. Si spiegano in questa luce le frequenti ripetizioni, considerate a lungo un segno di immaturità stilistica: alcuni concetti andavano riassunti in brevi formule facilmente ricordabili, come insegnava Epicuro, collocate nei punti chiave del poema. Anche l’invito all’attenzione del lettore doveva essere ripetuto spesso; alcuni termini della fisica epicurea e i nessi logici dovevano restare il più possibile fissi per consentire al lettore di familiarizzare con un linguaggio non facile. Inoltre alla lingua latina mancava la possibilità di esprimere certi concetti filosofici, e Lucrezio si trovò costretto a ricorrere a perifrasi nuove, a coniazioni e a riprendere vocaboli greci. La povertà della lingua latina era limitata però al lessico tecnico: Lucrezio sfrutta moltissimi vocaboli poetici della tradizione arcaica (soprattutto enniana) specie nel campo degli aggettivi composti, e molti ne crea egli stesso rivelando una spiccata propensione per nuovi avverbi e perifrasi. Dal patrimonio della poesia elevata romana trae le più caratteristiche forme dell’espressione: assonanze, allitterazioni, costrutti arcaici. L’esametro lucreziano si differenzia nettamente da quello arcaico di Ennio, rispetto al quale predilige l’incipit dattilico. Lucrezio dimostra di possedere una vasta conoscenza della letteratura greca, come testimoniano le riprese di Omero, Platone, Eschilo, Euripide, Callimaco e Antipatro. Il tratto distintivo dello stile di Lucrezio va individuato nella concretezza dell’espressione. Evidenza e vivacità descrittiva, visibilità e percettibilità degli oggetti intorno a cui si ragiona, corporalità dell’immaginario: questi caratteri dell’esposizione derivano dalla mancanza di un linguaggio astratto già pronto. L’espressione trae un guadagno formale da ciò: deve infatti supplire i vuoti verbali ricorrendo a molte immagini e a esempi esplicativi.

[T2]La fortuna[/T]

Forte fu l’influenza di Lucrezio su Orazio e su Virgilio (specialmente nelle Georgiche), che chiaramente allude a lui quando in quell’opera afferma essere felice l’uomo che può capire la causa delle cose. Ovidio scrisse di lui: “Solo il giorno in cui avrà fine la terra, avranno fine i canti incomparabili di Lucrezio”. Tacito, nel Dialogus, attesta che alcuni lo preferivano a Virgilio, rispetto al quale in effetti Lucrezio è poeta di maggiore spessore drammatico. Anche Seneca e Quintiliano lo ammirarono. Con le dottrine materialistiche accolte da Lucrezio naturalmente polemizzarono gli autori cristiani, da Tertulliano a Lattanzio a Girolamo, che pure ne subirono il fascino di poeta.

Versioni e traduzioni di Lucrezio:

Versioni di Lucrezio

  • Scuole Superiori
  • Letteratura Latina
  • Lucrezio

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