Luigi Pirandello, nato ad Agrigento nel 1867, compì i suoi studi a Palermo, Roma e si laureò in lettere presso l’università di Bonn (in Germania) nel 1891. Tornato in Italia nel 1892, prese residenza a Roma, dove trascorse poi gran parte della sua vita, collaborando a vari giornali e riviste, e insegnando per oltre vent’anni letteratura italiana presso l’Istituto Superiore di Magistero Femminile (dal 1897 al 1922). Il dissesto finanziario causato dalla perdita della rendita di una miniera di zolfo (lascito paterno), lo costringerà a mettersi in concorrenza anche sul mercato editoriale vendendo le sue novelle e romanzi. E’ da notare che nel 1904 ebbe inizio una grave crisi mentale della moglie (iniziata proprio grazie al dissesto finanziario, e sfociata in una forma morbosa e violenta di gelosia nei confronti del marito), che costituì per lo scrittore una vera e propria tragedia familiare (il matrimonio doveva essere infatti “di convenienza” ma si trasformò sfortunatamente in matrimonio d’amore in quanto, come affermava lo stesso Pirandello “Non ci si può sposare innamorati, perché il matrimonio deve essere un patto lucido e consapevole: in un matrimonio senza amore, la donna si adatta al marito, assume il suo ruolo e lo porta avanti creando un’unione solida e portatrice di grandi risultati“), che non rimase senza influsso sulla sua dolorosa concezione del mondo. Negli anni del dopoguerra si dedicò sempre più decisamente all’attività teatrale e fu così che nel 1925 fondò a Roma il Teatro d’arte, dando vita – per alcuni anni- ad una propria compagnia drammatica. In politica, aderì al partito fascista, ma non si espresse mai apertamente su questo tema. Mussolini, gli fece costruire un teatro, a Roma, anche se non apprezzava le sue opere (lontane anni luce dal trionfalismo del regime). Nel 1934, mentre si faceva sempre più largo e profondo l’interesse suscitato in tutto il mondo dalla sua opera teatrale, gli fu conferito Premio Nobel per la letteratura. Morì a Roma, in seguito ad un attacco di polmonite, nel 1936. A fianco è il pino sotto il quale sono tumulate le ceneri di Pirandello. Egli infatti espresse la volontà di non essere sepolto, ma cremato dopo una breve e semplice cerimonia funebre.
L’arte e la personalità
Vissuto nel periodo a cavallo tra ’800 e ‘900, fra il naturalismo e l’inizio del decadentismo (periodo delle insicurezze decadentiste, dei “sensi” di Baudelaire, della solitudine di Pascoli, delle tensioni avanguardistiche) Pirandello, come Svevo, è definito uno scrittore isolato, difficile da inquadrare in un movimento letterario ben definito. Nelle sue opere sono rappresentate le riflessioni sull’esistenza, sul male di vivere e sul ruolo dell’uomo nella società; vi si afferma, infatti, l’impossibilità al conseguimento d’alcuna soluzione positiva alla crisi che coinvolge e sconvolge i singoli individui, il tessuto sociale e le istituzioni
Pirandello imposterà i suoi primi scritti come verista, fotografando la realtà siciliana (estremamente utile sarà l’esperienza fatta in un’estate di “lavoro” alla cava di zolfo paterna), e denunciandola socialmente; il realismo di Pirandello, si discosta comunque dai temi del verismo Verghiano: in Verga, esiste un analisi esterna dei personaggi e delle situazioni, intrisa di particolari idealismi (la religione, l’onore…), mentre nell’analisi Pirandelliana i personaggi vivono una realtà non univoca, ma multiforme e sfaccettata, prigionieri di un mondo illusorio e incoerente, un mondo in cui l’inutilità e la miseria della loro vita appaiono come l’unico scenario di base in cui si snoda la vicenda umana, percepita, peraltro in modo sempre diverso a seconda di chi la osserva. Inoltre, Pirandello analizza non solo la classe operaia più umile, ma anche la borghesia, con le sue nevrosi, le sue frustrazioni.
Nella vita e nel suo flusso eterno, Pirandello avverte, da un lato disordine, causalità e caos, dall’altro percepisce disgregazione e frammentazione. Egli sente i rapporti sociali inautentici, rifiuta le forme e le ipocrisie imposte dalla società; a questo proposito, il pessimismo dello scrittore è totale e ciò lo si nota anche, nelle sue opere, dalla caratterizzazione dei personaggi, i quali sono posti sempre in situazioni paradossali, svelando così la contraddittorietà dell’esistenza umana. Vede, Pirandello, un mondo vuoto, privo di ideali: si è perso il gusto dell’eroe, del giusto. Ognuno vive la propria promiscuità, e lo scrittore gliela getta in faccia attraverso le sue opere. Egli punta il dito contro la classe borghese, vuota di ideali e cultura, che crea angosce, ansia, sopraffazione. Dal rifiuto della società organizzata nasce una figura ricorrente in Pirandello, quella del “forestiero della vita”, l’uomo cioè che si isola e si esclude, colui che guarda vivere gli altri e se stesso dall’esterno con un atteggiamento “umoristico”, in una prospettiva di autoestraniazione.
La poetica pirandelliana viene così a basarsi su alcuni nuclei concettuali: il vitalismo e il caos della vita. Il vitalismo è la tesi secondo cui la vita non è mai né statica né omogenea, ma consiste in un’incessante trasformazione da uno stato all’altro; la vita è, in definitiva, una contraddizione insanabile: è caos, movimento, mentre gli uomini cercano disperatamente di fissare delle forme stabili, ma l’unico momento in cui vi riescono coincide con la loro morte; la frattura è così inconciliabile. Il relativismo nel sostenere che è impossibile giungere a stabilire una verità, insieme al soggettivismo, legano Pirandello al clima culturale del primo Novecento, cioè alla fase in cui si compie la crisi del Positivismo. Pirandello rifiuta il Positivismo, movimento che riteneva la scienza capace di dare risposte certe alle angosce e all’infelicità della vita (movimento ateo), e si reputa testimone attento e consapevole della crisi della sua epoca, vivendone le contraddizioni. Egli interpreta in modo originale l’atmosfera decadente, traendo dall’esperienza concreta del suo tempo i suggerimenti per un’analisi lucida ed amara della natura della realtà; ma, se per alcuni motivi la sua posizione rientra nell’ambito di quello che si è soliti definire Decadentismo, sotto altri aspetti (espressionismo) egli lo ha già superato.
Pirandello è stato considerato un autore “filosofico” più attento ai contenuti che alle soluzioni stilistiche e che non si limita a teorizzare le sue concezioni, ma le usa come materia, ne fa l’oggetto delle proprie composizioni. Con le sue opere, la letteratura italiana esce dall’ambito nazionale e acquista respiro europeo. E’, infatti, uno dei pochi autori italiani importanti, conosciuto a livello internazionale con Svevo, Ungaretti, la generazione d’inizio secolo, e quindi, dopo l’arrivo (nonostante il regime fascista) della letteratura americana e nordeuropea in Italia, Gadda, Pasolini, Calvino negli anni ‘50/’60.
Le tematiche pirandelliane
1. La pazzia – Il senso della pazzia è una delle tematiche più importanti nell’universo Pirandelliano: la pazzia è quando noi non ci rendiamo più conto di avere sul volto una maschera (oppure, rendendocene conte, ce la togliamo) maschera che cambiamo tante volte al giorno, a seconda del ruolo che dobbiamo sostenere. Quando non ci si rende conto di aver la maschera, o non la si indossa più, si può essere se stessi, dire agli altri in faccia ciò che siamo, ciò che pensiamo; gli altri vedendoci diversi ci crederanno pazzi. Essere se stessi, liberarsi delle convenzioni, non atteggiarsi, non comportarsi come la gente vorrebbe che ci si comportasse. Il pazzo si fa portare dall’immaginazione e capisce che è padrone della vita trovando se stesso. Pirandello arriva a queste considerazioni attraverso le vicissitudini familiari della moglie l’inizio della situazione di instabilità emotiva, e quindi di pazzia della consorte coincidono, e ne sono causate, dal tracollo economico seguito all’allagamento delle miniere di zolfo avite. La moglie, già mentalmente instabile (si dice che ciò fu dovuto alle gravidanze), subisce un gravissimo shock. Nel 1904 impazzisce del tutto (esternando ciò in convulsi atti di gelosia e accuse di tradimento).
2. Le realtà soggettive – Lo scrittore fa curare la moglie senza però ottenere risultati (sarà internata, e morirà in ospedale psichiatrico nel 1952). Arriva così alla conclusione di lasciarla alle sue convinzioni, di non contrariarla. Infatti, quando vogliamo sconvolgere l’equilibrio raggiunto da un altro, gli facciamo del male; occorre rispettare il mondo interiore, la realtà che l’altro si è costruito, nella quale crede e sta bene sino a che qualcuno non cerca di strappargliela. Ognuno vive sul proprio piano, ha la sua realtà, percepisce una realtà diversa e opposta da quella di tutti gli altri, l’importante è lasciarlo dove vuole stare (anti positivismo). Ma alfine, qual è la visione giusta, “normale” della realtà? Quella usualmente mediata dalla ragione “media” comunemente accettata, o quella deformata, come se fosse “percepita da oltre uno specchio”? Così come non esiste una visione “univoca” della realtà, così, per assioma, non esiste una visione “giusta” della realtà: possono esistere solo ideologie, culture della realtà che mirano a definirsi come le uniche giuste, veritiere e corrette: fanatismi religiosi, movimenti politici, immersi peraltro nel secolo dei “dubbi”, della mancanza di certezze.
3. La frammentazione dell’essere – l’uomo non ha una sola identità, ma tante quante gli altri gliene attribuiscono. Quando la certezza dell’essere se ne va costatando che gli altri ci vedono in modo, anzi, in miriadi di modi (un modo per ogni altro) diversi da come ci vediamo, da come avevamo creduto di essere da sempre, le certezze si disgregano, si “impazzisce”, si capisce che ognuno di noi è una persona diversa per tutti gli altri, ogni persona vede, percepisce, prende di noi cose diverse, e non i tratti salienti da noi usualmente considerati (rif.: “Uno, nessuno e centomila”). La vita è movimento, ma l’uomo, per poter vivere ha bisogno di fissare dei ruoli, ma la forma chiusa è immobilità, quindi morte; non c’è soluzione. Ci si vede vivere dall’esterno osservando la gabbia in cui si è stati costretti a costruire la propria vita.
4. La maschera – Non potendo quadrare il mio io, non so chi io sia, non sono, e perciò non posso comunicare agli altri. Il vivere è perciò una pena. Ci si atteggia a qualcosa che non si è, si modifica qualcosa di cui non si è sicuri e perciò ci si rende ridicoli: quindi noi continuamente ci mascheriamo, per convenire alle aspettative della gente, alle convenzioni sociali. Il mondo è fatto di continui atteggiamenti per apparire, e perciò l’uomo si dilania; va così incontro alle psicosi dell’uomo moderno.
5. L’umorismo – L’umorismo, nel significato comune del termine, indica la percezione o la rappresentazione, in riferimento a determinate situazioni, del ridicolo (nelle cose, nell’uomo ecc.), allo scopo di suscitare ilarità. Generalmente, fermandosi a questo primo livello di “lettura” senza successive analisi, l’umorismo è, quindi, quasi sinonimo di comico. L’umorismo Pirandelliano, invece, nasce dalle situazioni di dolore, dalle sofferenze e dal “divenire” patetico degli altri (sottintendendo il compatimento e la pietà, certo, ma anche la speranza che a noi non capiti mai una simile situazione). L’umorismo di Pirandello, parte dal comico come avvertimento del contrario (la situazione anomala e ridicola che suscita l’ilarità), per poi arrivare, tramite una riflessione mirata alle cause che hanno determinato tale comportamento o situazione, cogliendone gli aspetti intrinsechi, spesso dolorosi e pietosi ad un sentimento del contrario. Nelle sue opere Pirandello lavorerà solo sull’aspetto umoristico delle vicende e delle persone, puntando sempre ad una riflessione palese, o indotta nel lettore, sulle angosce e l’amarezza derivanti dal vivere determinate situazioni.
6. L’antieroe – Pirandello guarda dentro l’uomo. Anche l’eroe (che di solito ha una morale con certezze granitiche, che non pecca) non è vero che alla fine è felice, anzi, può perdere, essere preso in giro, fallire. E’ l’antieroe, il protagonista dei romanzi del ‘900, l’inetto alla vita, l’incapace, il complessato, il perdente.
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