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Maria Zambrano

Pensiero e vita.

Allieva di Ortega y Gasset e di Xavier Zubiri, Maria Zambrano (Vèlez-Malaga, 1904 – Madrid 1991), interprete molto attenta e sensibile dell’opera di Miguel de Unamuno e della poesia di Antonio Machado, fu tra le prime donne spagnole ad intraprendere le carriera universitaria in un contesto in cui “una filosofa, nella Spagna degli anni Trenta, era quasi `una donna barbuta’, un’eresia, una curiosità  da circo”. La sua caratteristica più affascinante consiste in uno sforzo intellettuale e viscerale insieme di dar voce a ciò che resta silente, di celebrare l’oscurità , l’altro lato dell’esistenza, quello esiliato, muto, nascosto ma profondamente `sentito’, che solo libera dalla tendenza assolutizzante ed impone l’umiltà , compagna necessaria di ogni cammino di conoscenza. La filosofia fu il suo prioritario impegno e la sua irrinunciabile passione: una sfida costante al pensiero oggettivante che tende a negare l’anima stessa da cui trae origine. Non amò quindi mai alcun `sistema filosofico’, che vedeva come “castello di ragioni, muraglia chiusa del pensiero di fronte al vuoto”. Aspirò sempre ad una verità  al di fuori di criteri e stereotipi, fedele nell’intento di attuare una “filosofia vivente”, disposta a confrontarsi con l’essere umano nella sua interezza, ad esplorare “il logos che scorre nelle viscere”. “Il pensiero, a quanto sembra, tende a farsi sangue. Per questo pensare ò cosa tanto grave. O forse ò che il sangue deve rispondere al pensiero… come se l’atto più puro, libero, disinteressato compiuto dall’uomo dovesse essere pagato, o quanto meno legittimato, da quella `materia’ preziosa tra tutte, essenza della vita, vita stessa che scorre nascosta”. Il suo scrivere ò caratterizzato da una vena poetica, spesso ironica, da cui emerge una figura trasgressiva ed originale, profondamente vitale nella sua riflessività . La sua vita ha conosciuto varie e profonde crisi, di cui troviamo testimonianza nel saggio autobiografico “Delirio e destino”. Prima vi fu la “malattia creativa” (1928-29), che per lunghi mesi la costrinse all’isolamento ed all’immobilità  oltre, naturalmente, all’interruzione degli studi. Fu, forse, la risposta del suo essere all’impatto con un mondo accademico in cui l’egemonia del discorso maschile non ammetteva apertura. Poi vi fu l’esilio, durato quarant’anni, per sfuggire al regime franchista: aveva partecipato alla guerra civile e nel gennaio 1939 era nella colonna di profughi che abbandonava la Spagna ormai in mano all’esercito franchista. Infatti, all’avvento del franchismo al potere, per lei si apre un lunghissimo periodo di peregrinazioni che la porteranno in Cile, in Messico, a Parigi, ove, in momenti diversi, conosce Sartre, Camus ed Emile Cioran, a Cuba e a Portorico. Nel 1953 si trasferisce a Roma con la sorella; qui stringe significativi rapporti con Alberto Moravia, Carlo Emilio Gadda, Elena Croce, Elemire Zolla e Cristina Campo. Lasciata Roma, si sposta nel Giura francese e poi a Ginevra, finchè, dai primi Anni ’80 sino alla morte, risiede a Madrid. La Zambrano coniugò costantemente l’attività  di insegnamento a quella della scrittura, pubblicando numerose opere che la fecero via via apprezzare da un numero sempre maggiore di estimatori e che le fruttarono pure ambiti riconoscimenti (sarà  la prima donna a ottenere, nel 1989, il premio della letteratura in lingua castigliana “Miguel de Cervantes”). Maria Zambrano visse l’esilio come esperienza limite, come “oggetto di rivelazione, che ò come dire di scandalo” per chi ò potuto restare “nella propria casa, nella propria geografia, nella propria storia”. Sperimentò l’abisso della perdita del senso, lo spaesamento, l’estraneità  a se stessi che prelude all’apertura ad un ignoto prima inconcepibile. Tornò sempre al suo compito di testimoniare, con il suo essere donna che pensa e scrive, le infinite potenzialità  della vita che restano nell’ombra, nel desiderio inespresso, al di sotto della coscienza. “Il pensiero filosofico ci permette di osare sentire quello che sentiremmo in ogni caso ma senza osare, e che resterebbe per questo sospeso a metà  nascita, come quasi sempre succede al nostro sentire. E’ per questo che la vita di tanta gente non va oltre il conato, un conato di vita. E questo ò grave, perchè la vita deve essere piena in qualche modo, in questo conato di essere che siamo” Poi vi fu la inevitabile e dolorosa divergenza da Ortega y Gasset: nel saggio “Per un sapere dell’anima”, l’autrice affermò come, per essere realmente `vivente’, la filosofia debba rompere con un atteggiamento di unilaterale egemonia della mente per farsi carico dell’essere umano nella sua interezza, riconoscendo non solo l’anima ma anche il corpo quale fonte di creatività  e trascendenza, quale luogo pulsante che media il contatto con le forze sacre della materia vivente, con “i residui della matrice originaria da cui l’uomo si ò strappato per vivere come un essere indipendente”. Ciò le costò un’accusa di “mancanza di obiettività ” da parte di quello che fino ad allora era stato per lei maestro e riferimento. Prese gradualmente corpo l’intuizione di quella che in “Filosofia y Poesia”, (1939), l’autrice chiamò “ragione poetica”, ovvero un metodo di pensiero che, ispirato alla poesia ed alla mistica, apriva un mondo di conoscenza alternativo a quello della filosofia occidentale. “E tutti questi mondi, prima ancora che di leggi, di ragioni o di altre cose pratiche, hanno bisogno della poesia, che sa capire le cose schiave, ascoltare la loro voce e avvicinare la loro immagine fuggevole”. Ad una presunta oggettività  neutra e distaccata, predicata dall’epistemologia dei suoi tempi, ella contrappose un’apertura fiduciosa al reale, una posizione filosofica che era ad un tempo una scelta di vita, “uno stile di vedere la vita e quindi di viverla, un modo di star piantato nell’esistenza”, e ancora “un modo di stare nel mondo ammirati, senza pretendere di ridurlo a niente”. Negli anni dell’esilio a Cuba, la Zambrano denuncia spesso la preoccupazione per l’esclusione delle donne dai luoghi del dire e del sapere ufficiale, il dolore per la mancanza di una parola femminile che restava muta, sottomessa, priva di riconoscimento e di voce. Tuttavia la sua analisi va oltre i riduttivi termini della “questione femminile”, pur così urgente: ella riconosce come la negazione della donna reale sia sempre stata il riflesso dell’incapacità  della vita umana di albergare l’amore in tutta la sua forza vitale e rivoluzionaria. Troppo spesso addomesticato e ridotto in limiti angusti di regole sociali, l’amore tende ad essere svuotato della sua potenza “capace di generare metamorfosi, di indurre trasformazione, di far germogliare il nuovo in ogni essere”. La crescente emancipazione delle donne, portatrici potenziali di tale forza trasformatrice, si rivela troppo spesso ambivalente nel subire il fascino dei modelli maschili: “mai diremo che la donna debba diventare uguale all’uomo; per certi aspetti dovrebbe essere il contrario”. Il tema centrale della riflessione filosofica della Zambrano verte intorno alla necessità  di `coniunctio’ tra il mondo femminile e quello maschile, tra mente che crea e anima che sente e vive. Il suo atteggiamento intellettuale, così come tutta la sua vita, rincorre il sogno di un’unione di opposti, capace di realizzare “il prodigio di vivere tra i due, conseguendo il nous senza perdere l’anima; addentrandosi per quanto ò possibile nella libertà  senza annientare nè umiliare la vita delle viscere”. Si tratta di un’impresa divina, che all’umano ò concesso tentare se si astiene dalla presunzione ed impara la misericordia: “questo ò misericordia: che con la nostra speranza e il nostro amore arriviamo a partecipare della creazione, anticipando la verità  nei sogni, sognando verità  che non sono ancora vere, dando il nostro aiuto perchè dal mistero la verità  si sprigioni”. La filosofia di Maria Zambrano si ispira quindi a quelle figure di donna che, come Antigone, Eloisa e Diotima, hanno conosciuto la misericordia in quanto “hanno fatto dell’amore una filosofia di vita e della propria vita un’opera filosofica”. In modo estremamente evocativo e poetico, nel saggio “All’ombra del dio sconosciuto”, l’autrice ne traccia i personaggi che definisce “aurorali” in quanto, a differenza di tanti eroi maschili, furono donne capaci di quell’offerta consapevole di sè che prelude l’atto creatore. “Prima di raggiungere l’indipendenza bisogna offrirsi, come se qualcosa di quello che la vita ò in forma spontanea dovesse essere assimilato e trasformato”. Al sole della coscienza, che spesso scivola nella ragione unilaterale, l’autrice preferisce la figura mitica di Aurora, sorella della notte, promessa di luce che emerge dalle tenebre di cui mantiene in sò intima traccia. “Si dimenticherà  sempre la lacerazione e il patimento dell’Aurora, il suo parto, se non si tiene conto della Notte, se la si vede unicamente come l’annuncio del giorno”. Scrive Maria Teresa Russo: “quello di Maria Zambrano si può, in effetti, definire un “pensiero appassionato’, che aspira ad una sintesi tra ragione e cuore, e dunque anche tra poesia e filosofia… Maria Zambrano fa senz’altro filosofia, ma in cerca di una modalità  espressiva che concilii in sò il rigore e la passione, per un’adesione più profonda del pensiero alla vita. In lei la filosofia non ò mai puro esercizio speculativo, ma esigenza profonda dell’essere alla ricerca di risposte vitali”. Per la pensatrice spagnola, dunque, la filosofia fa un tutt’uno con la vita, significa trovare se stessi, giungere finalmente a possedersi, e la verità  di cui essa va alla ricerca non ò qualcosa di astratto, ma assume piuttosto i caratteri della concretezza esistenziale. In questo contesto, la Zambrano elabora un antropologia secondo la quale l’uomo possiede una chiara coscienza della propria finitezza, che alimenta in lui nostalgia e speranza a un tempo: ò per questo che il futuro dell’uomo (la speranza) coincide con una sua rinascita (la nostalgia), realtà , queste, che hanno la loro sede naturale nel cuore di ciascun essere umano. Afferma a questo proposito ancora Maria Teresa Russo: “di fronte al ‘cogito’, cifra dell’umanesimo cartesiano, Zambrano oppone il cuore, categoria dichiaratamente agostiniana. Proprio a sant’Agostino la pensatrice si riconduce esplicitamente, quando tratta della necessità  che il cuore si ricomponga, che riconquisti la perduta armonia con la ragione. àˆ un cuore – prosegue la Russo – che ha bisogno, contemporaneamente di ritrovarsi nella confessione e di esprimersi nella compassione”. Non casualmente la Zambrano ha dedicato uno dei suoi scritti più notevoli proprio al tema della confessione, intesa come possibilità  di ricostruire la propria identità  attraverso il raccontarsi a un interlocutore privilegiato: a questo riguardo si possono leggere cose molto interessanti nel volumetto Antigone e il sapere femminile dell’anima, curato da Maria Inversi per le Edizioni Lavoro, nel quale si trova questa bella suggestione: “la confessione – secondo Zambrano – ò dunque un metodo per trovare questo chi, il soggetto a cui accadono le cose, e in quanto soggetto, colui che resta al di sopra, libero da quanto gli accade”. In “Chiari del bosco”, Zambrano ci parla del risveglio dell’anima e del suo incamminarsi per boschi oscuri, dove opprime l’angoscia del vuoto fino al compiersi quasi miracoloso della liberazione; ritrovandosi, l’anima infine nei chiari del bosco (qualche influsso dei “Sentieri interrotti” di Heidegger ò presente), piccole radure di luce che appaiono all’improvviso e senza ragione, ridando ordine all’essere che vagava perso a se stesso. La Zambrano opera un movimento del tutto inusuale nel campo dell’investigazione filosofica che si ò sempre servita del logos per trovare la realtà , o meglio per trovare quegli assunti logici che della realtà  erano l’archò, la causa prima da cui poi la materia poliedrica si generava, squadernando per l’universo quel caos che, tuttavia, era solo apparente. Pure questo logos per spiegare il caos ha dovuto flettere la materia caotica e sottrarla di forza al suo campo uniforme ed indistinto, e distillarlo da quelle contraddizioni che pure sono l’humus del divenire, ed elevarlo alle astrazioni disseccate e filtrate del pensiero, non trovando in questo processo nessuna incoerenza. La filosofia ha sempre smussato gli angoli, cancellato le sbavature, teso alla perfezione, ò stata arrogante, tiranna, investigatrice, teorizzando realtà  inconfutabili ha tagliato tutto ciò che era brutto, malfermo, incerto, abnorme, codificando in tal modo le linee del potere e dando alla storia dell’occidente le coordinate sulle quali poter muovere il gioco della vita. In una parola ha mistificato. Questa mistificazione si ò andata operando grazie all’asservimento del pensiero e della parola ai dogmi logici di una razionalità  che si dava come presunta unica sapiente e conoscente. Perchè come può questo maldestro, iniquo e strampalato essere che vive di logos come di caos, che si lascia irretire dalle facili seduzioni della sua natura, come può piegarsi alle strettoie di un pensiero che lo vuole certo, unico, mitico e fermo? Esso, l’essere si ribella, sfuma, vaneggia e non si lascia comprimere. La sua rivolta ò l’inconoscibilità . Dove si conosce si pongono limiti, nel momento in cui comprendo classifico, elimino dunque, faccio rientrare un fatto in una categoria piuttosto che in un’altra, opero scelte, cioò taglio sulla realtà , sulle possibilità . Se tutto ciò che l’essere fa ò dovuto a qualcosa, dove finisce la sua libertà ? Esso non può più sorprendere. Molto di un certo pensiero moderno derivato anche da tanta psicanalisi, nel tentativo di dare soluzioni alla sofferenza sta operando l’ennesima mutilazione, creando i dogmi di una nuova religione, quella del benessere a tutti i costi, di cui ò facile prevedere come un futuro potere potrà  appropriarsi per rendere l’individuo ancora una volta omologato agli altri. Classificando si pone ordine, si mette in fila e nasce il superiore e l’inferiore, la normalità  e la diversità , il ghetto, la violenza e tutto il sistema di controllo e repressione di cui la prigione, il manicomio, l’ospedale e la scuola sono stati e sono per l’occidente gli strumenti per coercizzare e piegare la diversità , la malattia, l’innocenza all’interno di un codice morale penalizzante, del quale ò stato supremo indagatore il filosofo francese Michel Foucault. Pare di vedere che oggi più che mai la rivolta dell’essere debba compiersi secondo una riappropriazione del proprio diritto alla sofferenza, a un dolore che ò mistero, ricerca, tentativo individuale di spiegazione, che sempre si cerca, si trova un attimo solo per tornare a perdersi. Tale ò la realtà  che la Zambrano ci descrive nella sua dolentissima umanità , nel suo dignitosissimo modo, tutto umanistico, di accostarsi all’essere, senza violentarlo, con la compassione di chi sa qualcosa perchè l’ha vissuta e preferisce tacere. Non dà  spiegazioni, la filosofia della Zambrano, si accontenta di seguire l’uomo, la sua stupidità , la sua tragedia, il fuoco improvviso della sua gioia che in un attimo, per miracolo, ritrova tutto chiaro in sò, ma già  ò oltre, di nuovo nel bosco, viandante, solo, alla ricerca di sò. Il pensare ò per la Zambrano non tanto un analizzare quanto un osservare, un restare testimone, un’accettazione di cui lei costruisce una religione del silenzio e della dignità . E’ invece il coraggio di restarsene ai margini con un’umiltà  molto solenne, senza voler per forza piegare la realtà  nelle strettoie del bene/male, vero/falso, morale/immorale. E infatti la fedeltà  alla vita ò un’infedeltà  alla morale, “un segno di fedeltà , d’accettazione del tempo e della relatività  che non rinuncia all’assoluto”. Ma quella della Zambrano ò parola poetica, umile e povera. “Generatrice di musicalità  e abissi di silenzio, la parola che non ò concetto perchè ò lei che fa concepire, la fonte del concepire, che probabilmente si colloca oltre ciò che si chiama pensare”. Come se nel dormiveglia la realtà  si svelasse, dono profetico, cibo per iniziati, capriccioso rito che conserva leggi sue proprie. Perchè non ò il logos che la realtà  dell’essere ricerca, vagando esso come più gli piace, e tuttavia nel suo gioire e soffrire esiste un logos, certamente, ma che ò misura contenente gli opposti. “Illimitata, (la parola) traccia, come un geometra, limiti, le necessarie separazioni fra i verbi e fra le diverse manifestazioni del tempo; nel quale apre solchi, paralleli o meno. sostenendo addirittura il loro divergere, perchè nella relatività  della vita il divergere, quando ò sorretto dalla parola depositaria del senso indiviso, dell’unico, ò garanzia di unità “. Lo si cerchi dunque, questo logos, e lo si trovi nel mosaico integro e non filtrando quelle sedimentazioni perturbatrici che sono la trama in cui sempre va a dibattersi l’essere, se esso ò, com’ò, realtà  incarnata, immersa nel tempo e nel divenire. La filosofia della Zambrano ci porta alle soglie del silenzio, come già  certa poesia. se poetare significa non tanto fantasticare, quanto indagare la frase, la logica, forzando i significati, i limiti della sintassi, sfibrare la parola, decomporla, ucciderla e risorgerla diversa, obliqua finchè ci sveli qualcosa d’imprendibile: il mistero. Come dice la Zambrano magnificamente. “E in seguito l’essere una volta destatosi, di mattina o nel centro della notte, a questa luce che si accende senza che si sappia come nell’oscurità , se ne ricade… Soffrirà , anzi, senza dubbio di sete e di oscurità . Ma il vivere umanamente sembra che sia proprio questo, che consista in questo, in un aspirare e un desiderare appagati, nell’oblio di se stessi, da istanti di pienezza che in seguito li ravviano, che li riaccendono. E continuerà  cosà­, per quanto ò da intuire, interminabilmente”. “Scrivere – come dice in un suo testodel’61- ò difendere la solitudine in cui ci si trova ò un’azione che scaturisce unicamente dall’isolamento effettivo, non comunicabile, nel quale proprio per la lontananza da tutte le cose concrete, si rende possibile una scoperta dei rapporti tra di esse”. Girovaga, “pensatrice errante”, Maria Zambrano ha fatto del “pensare ” un’esperienza capace di coniugare “parola poetica” e rigore geometrico. Sulle figure di Edipo e Antigone, la Zambrano ha scritto pagine fondamentali, non prive però di qualche forzatura della tragedia greca. “El ombre y lo divino” (“L ‘uomo e il divino”) ò sicuramente la sua opera filosoficamente più pregnante e suggestiva, in cui ci si addentra in quella “ingens sylva” che unisce appunto l’uomo e il Divino, sapendo che compito dell’uomo ò “custodire” il mistero, sì per “conoscerlo come tale, come mistero – senza pretendere di svelarlo”.

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