Niklas Luhmann, nato nel 1927, ò uno dei rappresentanti più autorevoli e originali del pensiero sociologico tedesco contemporaneo. La sua produzione scientifica ò imponente: si ò occupato di sociologia generale, di sociologia del diritto, di teoria politica, di sociologia della religione, di semantica storica, di etica e di ecologia. Ricco di una profonda preparazione filosofica, ha sempre prestato una particolare attenzione ai problemi teorico-epistemologici della sua disciplina: un’attenzione che emerge, si può dire, in tutte le sue opere (tra le quali, per restare a quelle tradotte in italiano, segnaliamo almeno Stato di diritto e sistema sociale, 1971; Sociologia del diritto, 1972; Potere e complessità sociale, 1975; Illuminismo sociologico, 1975; Struttura della società e semantica, 1960). Nella seconda metà del Novecento, lo studioso tedesco ha cercato di organizzare i propri princìpi e proposte generali in un’ambiziosa concezione d’assieme della società e della sua scienza, consegnata al vasto trattato Sistemi sociali. Lineamenti di una teoria generale (1984). E’ stato Luhmann stesso ad attribuire alla propria concezione la denominazione di ” funzionalismo strutturale ” per sottolinearne la differenza rispetto allo “strutturalismo funzionale” del filosofo Talcott Parsons. In realtà l’opera luhmanniana può essere considerata in larga misura uno sviluppo di quella di Parsons, soprattutto se si tiene presente che anche per Luhmann il compito centrale della sociologia ò quello di elaborare una teoria generale della società , in grado di pensare quest’ultima in rapporto a precisi fondamenti unitari. Non diversamente da Parsons, Luhmann respinge tutti gli indirizzi sociologici che si appagano di una mera rilevazione empirico- particolare di singoli eventi e processi. A suo avviso, ciò che manca alle scienze sociali moderne ò anzitutto la comprensione del fenomeno sociale nelle sue determinazioni più generali. Per questa ragione Luhmann si ò impegnato nell’elaborazione di nuovi concetti sociologici e si ò sforzato di aprire prospettive metodologiche sempre nuove, nel tentativo di far corrispondere alla crescente complessità e variabilità delle società moderne teorie altrettanto complesse e sofisticate. Uno dei limiti principali della sociologia di Parsons sta per Luhmann nell’aver privilegiato il concetto di ‘struttura’ rispetto a quello di ‘funzione’. Invertendo l’ordine dei concetti parsoniani, Luhmann pensa che il problema centrale della ricerca sociologica non ò di cogliere le condizioni di sussistenza delle strutture sociali, ma di capire quali sono le funzioni svolte da determinate strutture (o sistemi) nel tentativo di mantenersi in equilibrio con l’ambiente. Quest’ultimo non ò poi qualcosa di totalmente esterno o neutrale rispetto alle strutture: a causa della sua elevata e crescente complessità esso rappresenta una costante minaccia per la sopravvivenza dei sistemi sociali e va pensato in una prospettiva che lo collega organicamente ad essi. Mutuando nozioni elaborate dalla “teoria generale dei sistemi” (Bertalanffy), Luhmann sostiene che i sistemi sociali sono tanto più in grado di stabilizzarsi quanto più sono capaci di replicare in modo pertinente alla sfide provenienti dall’ambiente. Inoltre un sistema ò in grado di resistere alla pressione dell’ambiente in stretto rapporto all’indice della sua complessità interna: quanto più la propria organizzazione interna ò complessa, tanto più essa ò in grado di tener testa alla crescente complessità e mobilità ambientale. Questa tensione fra sistema e ambiente ò il nucleo generativo della sociologia funzional-strutturalista che Luhmann ha elaborato nel corso degli anni ’70. Oltre al già notato particolarismo empiristico, un altro limite teorico di una parte della sociologia tradizionale era il determinismo, o almeno il suo uso meccanico e riduttivo della nozione di causa: un limite rispetto al quale la negazione indeterministica di tale nozione non rappresentava una risposta soddisfacente. Orbene Luhmann, lavorando sul concetto di funzione, si sforza di ridefinirlo in modo che risulti indipendente dal vecchio concetto di cause, nello stesso tempo, comprensivo di essa. A questo fine egli elabora la categoria della “equivalenza funzionale “, con la quale intende denotare la facoltà di fenomeni diversi di realizzare funzioni relativamente simili. Assunta come problema di riferimento una determinata causa, l’analisi delle equivalenze funzionali ordina un certo campo di effetti funzionalmente equivalenti rispetto a quella causa. L’attenzione scientifica risulta così rivolta alla descrizione di fenomeni la cui caratteristica ò quella di poter produrre l’uno indipendentemente dall’altro il medesimo effetto. L’analisi dei fenomeni viventi (fenomeni sociali inclusi) offre un vasto campo di applicazione ad una ricerca così impostata; da Bertalanffy in poi, una delle proprietà fondamentali dei cosiddetti “sistemi aperti” era considerata infatti la capacità di comportamento “equifinale”: la capacità , cioò, di raggiungere il medesimo stadio finale muovendo da punti di partenza diversi. Ora, per Luhmann, come l’individuo adulto di numerose specie biologiche può svilupparsi a partire da strutture embrionali diverse, lo stesso avviene per i fenomeni sociali: essi non dipendono da processi monocasuali o da precondizioni necessarie, ma da una pluralità di circostanze funzionalmente orientate verso una certa gamma di esiti possibili. Uno dei principi ispiratori di fondo della sociologia di Luhmann ò l’ anti-umanismo e l’ anti-storicismo: egli concepisce infatti la realtà sociale come un intreccio di mere correlazioni sistema-ambiente, il cui gioco progressivamente sempre più complesso resta aperto a possibilità infinite. Nessuna “mano invisibile” guida segretamente la storia, selezionando provvidenzialmente i fatti e riducendo la contingenza dei fenomeni sociali (come invece credevano Hegel e Adam Smith). L’evoluzione dei sistemi, la loro crescente complessità ò affidata contro ogni filosofia della storia di tipo organicistico o finalistico, all’intervento di fattori non solo casualmente indeterminati, ma in larga misura sottratti alla possibilità di controllo dei soggetti umani. Anche sotto questo profilo l’opera luhmanniana costituisce una sfida molto aggressiva nei confronti di una ben precisa concezione del mondo sociale. Più in generale, ben precise analisi impongono per Luhmann l’abbandono di una parte del patrimonio intellettuale del vecchio continente. La tradizione “vetero-europea”, sostiene lo studioso tedesco ò intrisa di elementi di filosofia sociale organicistica e finalistica. Essa si riferisce all’individuo concreto come a una “parte vivente” e relativamente autonoma della società , e (soprattutto) vede nel soggetto il pernio e l’ “attore” principale degli eventi e dei processi sociali. Contro questi assunti Luhmann sostiene che nelle moderne società differenziali e complesse i veri protagonisti di tali eventi e processi non sono più gli uomini o i gruppi con i loro bisogni materiali e i loro ‘valori’, ma i ruoli e le funzioni, i sistemi e gli ambienti: tutto un mondo di ‘datità ‘ e relazioni in qualche modo oggettive, nel quale gli individui operano come meri elementi interscambiabili e perfettamente fungibili. Considerati costitutivamente ‘umanistici’, illuminismo classico, materialismo marxista e storicismo sociologico appaiono a Luhmann altrettanto varianti moderne di una filosofia e di un’etica sociale arcaica. Il pensiero luhmanniano ha avuto particolare successo presso i giuristi e i sociologi della politica. Tale successo ò dovuto all’eversiva concezione ch’esso delinea dello stato di diritto o della democrazia. Per Luhmann lo stato di diritto (e con esso il sistema democratico) non ò il complesso delle procedure e delle istituzioni capace di ripartire e bilanciare il potere in funzione della garanzia dei diritti soggettivi, secondo l’ingenua pretesa ideologica della tradizione socialdemocratica: esso ò invece la forma più sviluppata dell’autonomia, anzi dell’assolutezza¸ nel senso etimologico di ‘sciolto da ogni legame’ (esterno) del sistema politico moderno. In effetti, attraverso la positivizzazione del diritto lo stato moderno si ò liberato da ogni vincolo proveniente da altri sottosistemi ideologico-sociali come la morale, la religione, il denaro-proprietà , i vincoli dinastici, ecc. A questo punto esso appare in grado di autolegittimarsi da sè solo, senza più alcuna necessità di far passare il riconoscimento del proprio essere attraverso l’effettivo consenso dei cittadini. Per Luhmann lo stato moderno può anzi operare presupponendo a priori il passivo consenso di questi ultimi, i quali si dispongono ad ubbidire senza particolari motivazioni. Del resto l’imponente aumento della complessità sociale, dei flussi di informazione e dunque delle competenze che sarebbero indispensabili per sorvegliare la gestione della cosa pubblica pone il cittadino nell’impossibilità di seguire attivamente tale gestione. Data questa situazione, considerata più o meno implicitamente immodificabile, non sorprende la presa di distanza critica di Luhmann dalla concezione classica della democrazia, intesa come responsabile partecipazione (diretta o indiretta) dell’individuo alla vita della società . Nei suoi saggi sociologici più recenti Luhmann ha insistito nel denunciare la distanza che separa la tradizione dell’umanesimo “vetero europeo” dalla realtà sociale dei passi industrializzati: una realtà sociale che la rivoluzione informatica contribuisce oggi a rendere sempre più complessa, dinamica e differenziata. In alcuni scritti lo studioso arriva a sostenere che la differenziazione dei sottosistema primari delle società complesse ò così avanzata che ciascun sottosistema interpreta ogni altro, e interagisce con esso, esclusivamente dal suo specifico punto di vista. Ciò che viene a mancare ò uno ‘sguardo’, una prospettiva in qualche modo unificante: anche la politica (che dovrebbe in certa misura essere questa prospettiva) si configura oggi semplicemente come un certo sottosistema, il quale opera senza sapere esattamente con che tipo di società ha a che fare. Con il già ricordato trattato Sistema sociale, Luhmann ha ulteriormente dilatato le ambizioni teoriche della propria sociologia. Già nel corso della sua precedente produzione egli aveva polemizzato sia contro lo speculativismo delle sociologie teoriche-novecentesche (dal nazionalismo critico alla sociologia di ispirazione fenomenologica, dal marxismo ortodosso al neo-marxismo della scuola francofortese) sia contro la pretesa delle sociologie di ispirazione più empirico-scientifica di potersi avvalere di criteri epistemologici certi. Nel suo lavoro egli pare voler accentuare ancora più la distanza della propria riflessione da qualsiasi precedente teorico: il rifiuto dei presupposti fondazionali della ‘vecchia’ sociologia si fa radicale non meno forte quello delle procedure argomentative canoniche del pensiero sociologico. Una sociologia davvero seria deve, a suo avviso, costruire un linguaggio concettuale rigorosamente nuovo ed autonomo, capace di tematizzare in modo adeguato l’irriducibile “complessità ” dell’universo sociale e di analizzare, l’oggettivo funzionamento di quella serie di sistemi e sottosistemi “autoreferenziali” (cioò fondati autonomamente su se medesimi, e indipendenti da soggetti, fini e valori esterni ai sistemi stessi) in cui consiste ciò che solitamente chiamiamo la società .
- 1900
- Filosofia - 1900