Riassunto
Nel canto quarto Beatrice
chiarisce due dubbi di Dante, che ella ha intuito senza che il suo discepolo glieli rivelasse. Il primo dubbio riguarda le
anime che non hanno adempiuto completamente i voti: se esse hanno dovuto cedere alla violenza altrui, come possono essere
considerate responsabili? Il secondo dubbio nasce dalla presenza dei beati nei singoli cieli: allora – si chiede Dante – le
anime ritornano nel cielo da cui sono venute, così come afferma Platone? Beatrice affronta per primo questo dubbio, perché lo
ritiene più dannoso per la fede. La vera sede dei beati è l’Empireo: essi appaiono nei diversi cieli affinché Dante possa avere
una prova sensibile dei loro digerenti gradi di beatitudine, perché l’intelletto umano può apprendere solo ciò che proviene dal
dato sensibile. Perciò si deve respingere la dottrina platonica del ritorno di ogni anima nel cielo dal quale si era staccata
per entrare nel corpo. Per spiegare la responsabilità delle anime della prima sfera che hanno mancato ai loro voti, Beatrice
distingue una volontà assoluta e una volontà relativa. La prima non vuole in alcun modo il male, la seconda si piega ad un male
per evitarne uno peggiore: così fecero appunto gli spiriti del primo cielo, laddove invece avrebbero dovuto opporsi con tutte
le loro forze alla violenza (ritornando, per esempio nel caso di Piccarda e di Costanza, al convento dal quale erano state
fatte uscire). Dopo aver innalzato un inno di lode e di ringraziamento a Beatrice, Dante rivolge alla donna amata una nuova
domanda, alla quale ella risponderà nei canto seguente.
Introduzione critica
Il quarto è certamente uno
dei canti più dottrinali del Paradiso, una di quelle pagine ragionative che più resistono alla forza trasfigurante della
fantasia per la natura stessa dell’argomento. Per questo motivo l’attenzione dei critici si è rivolta soprattutto all’ultima
parte del canto, nella quale si propone un tema decisamente lirico, tanto più suggestivo quanto più esso appare sorretto da
immagini ampie e ricche di movimento dopo le serrate e rigorose articolazioni dialettiche del discorso di Beatrice. Tuttavia
nella prima parte del canto il lettore non può non avvertire, come nota il Di Pino, la tensione sempre fervida e incalzante
dell’intelletto: “E’ questa una energia di fondo di tutta la Commedia e specialmente del Paradiso. Il suo costante spirare
deriva, ovviamente, dalla personalità morale e dottrinale di Dante. Ed è proprio questa energia mentale che… coordina senza
rottura le regioni poetiche e quelle impoetiche del poema. E pur di tanto in tanto, dalle giunture più affaticate, emana quel
calore implicito della mente, il caldo amore per la verità posseduta”. Messo in rilievo questo elemento indispensabile a una
giusta valutazione del canto quarto, appare interessante soffermarsi su due argomenti che esso propone alla nostra attenzione:
i riferimenti al mondo poetico e filosofico classico e la esaltazione della volontà eroica nell’uomo. L’esordio, nel quale le
tre similitudini richiamano un analogo passo di Ovidio (Metamorfosi V, 164-167), conferma, secondo una giusta osservazione del
Di Pino, la persistenza delle fonti ovidiane che, a partire dai canti del paradiso terrestre, sostituiscono quasi completamente
quelle virgiliane. Questo fatto ha una sua spiegazione: sollecitato dalla evidente analogia tra l’Eden cristiano e l’età dell’
oro vagheggiata dai pagani, Dante richiama spesso passi delle Metamorfosi (che avevano cantato l’incanto di quel tempo felice)
nella parte finale del Purgatorio e continua a chiedere ispirazione alla poesia ovidiana anche nei primi canti del Paradiso (si
veda, ad esempio, la protasi della cantica). Non è un richiamo di valore secondario e di carattere erudito, ma rivela in Dante
la volontà di conservare quanto è accettabile del patrimonio classico anche all’inizio del Paradiso, all’inizio, cioè, di
quella parte del suo poema che è esaltazione pura del verbo cristiano. Il fatto, anzi, di entrare nel tessuto vivo della terza
cantica, conferisce quasi un crisma di santità a quanto il Poeta ha salvato del mondo degli dei falsi e bugiardi. Tuttavia
questo fervido classicismo di Dante è più chiaramente affermato a partire dal verso 24, dove il nome di Platone è ricordato
proprio nel momento in cui il Poeta imposta l’ordinamento morale del suo paradiso. Dante non poteva ignorare che la teoria
platonica riguardante i cieli e le anime che ad essi ritornano era stata condannata nel Concilio di Costantinopoli nel 540;
egli stesso, del resto, la definisce piena di felle. Tuttavia non interrompe il suo ragionamento su questa decisa affermazione,
perché più oltre dichiara: forse sua sentenza è d’altra guisa… forse in alcun vero suo arco percuote.E’ certo che Dante in
questo momento si sente vicino Platone; ma ciò avviene non perché il poeta cristiano non accetti le teorie, ma perché si sente
accomunato al grande filosofo greco da un’intuizione, da un repentino colpo d’ala della mente, la quale, nel suo moto
ascensionali verso l’alto, avverte nei cieli un’anima, un fremito spirituale che attraversa con forza inarrestabile un universo
geometricamente conchiuso. Ancora una volta Dante è attratto da un pensiero che è al di fuori di quello cristiano. Anche se
egli condanna la teoria di Platone come piena di felle, alle stesso modo in cui ha già condannato il folle volo di Ulisse,
sembra di leggere in questi suoi versi “la sostanza intrepida di un ardimento intellettuale che cerca altre frontiere” (Di
Pino). Ad un certo momento in Dante, che aveva già conosciuto le dottrine di Platone attraverso Avicenna, Averroè, Alberto
Magno, Sant’Agostino (se non addirittura nella traduzione che Calcidio fece del Timeo), si nota una più larga ammissione del
pensiero platonico, e, in particolare, di quello relativo alle intelligenze celesti. “Verosimilmente, questo momento coincide
con quello della maggiore maturità del Poeta; il momento, cioè in cui egli, collocando la materia del Paradiso entro la
intelaiatura aristotelica, intravede nei cieli una carica di pensosità umana che non solo Aristotile ma neppure San Tommaso
poteva suggerirgli. Forse, a questo punto, egli scopre – come dirà nell’ultima epistola (XIII, 84) – che Platone si esprime per
metafore e che per “luce intellettuale” vede ciò che non può rendere col senso letterale.” (Di Pino)Non è tanto il pensiero di
Dante che riceve alimento da Platone, quanto la sua poesia, le sue intuizioni spirituali e psicologiche, grazie alle quali il
terzo regno non è più un organismo rigidamente mosso dal Primo Motore, ma è vivificato dal palpito delle intelligenze
angeliche, dai sorrisi, dalle danze, dai canti, dalla presenza, in una parola, delle anime beate (anche se, a proposito di
quest’ultimo fatto, Dante si preoccupa di sottolineare che è solo una finzione poetica). Il secondo elemento peculiare del
canto quarto è l’esaltazione delle virtù eroiche dell’uomo, la quale testimonia che la scoperta dei valori umani non è stata
propria soltanto della cultura del ‘400 e del ‘500. I versi 73-132, dominati dal motivo della volontà che mai s’amorza e del
desiderio di conoscenza che mai s’appaga, volontà e desiderio che hanno come loro ultimo termine la visione di Dio, accertano
la validità di questa affermazione: la caratteristica del grande umanesimo dantesco è la scoperta dell’accordo profondo dei
valori umani (quali la fortezza, l’amore, la gloria, la sapienza, la giustizia) con le esigenze della religione e della fede.
Questo è il presupposto di tutta la poesia del Paradiso.
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