Riassunto
L’anima di Giustiniano si allontana cantando, seguita dagli altri beati
del cielo di Mercurio, mentre Dante appare tormentato da un dubbio che non osa rivelare a Beatrice. Perché, si chiede il Poeta,
Dio ha scelto la morte del Figlio per riscattare l’umanità dal peccato? e perché questa morte, se era necessaria per
cancellare la colpa dell’uomo, fu vendicata con la distruzione di Gerusalemme, dove l’Uomo-Dio era stato crocifisso? Tuttavia
Beatrice ha compreso le incertezze del suo discepolo e inizia una spiegazione che si protrae per il resto del canto.
In
due modi la creatura poteva ottenere il perdono dopo il peccato originale dei progenitori:o per azione di Dio o per azione
propria. Tuttavia, poiché l’offesa fatta a Dio era infinita, l’uomo, da solo, non avrebbe mai potuto offrire un’adeguata
riparazione. D’altra parte Dio avrebbe potuto perdonarlo solo per un atto di misericordia: invece, nel suo infinito amore,
volle offrire in sacrificio il suo stesso Figlio. Dunque – conclude Beatrice – nella natura umana di Cristo fu punita, con la
morte tutta l’umanità peccatrice, ma gli uomini che osarono alzare la mano contro la natura divina commisero un atto di folle
empietà: per questo la distruzione di Gerusalemme, dove avvenne quell’atto, fu giusta vendetta.
Il canto si chiude con
una spiegazione di Beatrice sulla corruttibilità degli elementi generati da cause seconde e l’incorruttibilità di ciò che è
creato direttamente da Dio.
Introduzione critica
Nel canto settimo il Poeta dissolve le forti immagini
della visione storica del canto sesto con una ripresa di motivi schiettamente paradisiaci (l’inno di Giustiniano, la luce
scintillante e la danza degli altri beati, I’intervento sorridente di Beatrice): un esordio indispensabile all’argomento che
verrà trattato: il mistero dell’amore divino per l’uomo. Tuttavia il raccordo tra questi due canti esiste, profondo, perché
uno conclude, spiegandola concettualmente, la visione storica che l’altro aveva aperto sotto il volo dell’aquila
imperiale.
Non è questa la sede adatta per affrontare delicato problema delle relazioni fra Stato e Chiesa nel pensiero
di Dante; tuttavia è possibile un’osservazione, la quale permetterà di rilevare come il canto di Giustiniano non sia stato un
rapido excursus storico-politico, ma un canto che si inserisce armonicamente nella trama del Paradiso, perché il motivo
ispiratore è, in ultima analisi, quello religioso. Nella Monarchia Dante esaminava l’Impero soprattutto come organismo
politico, affermandone l’autonomia di fronte alla Chiesa e distinguendo le sue attribuzioni in rapporto al fine ultimo
dell’uomo; auspicava la coordinazione del potere imperiale con quello pontificio e il rispetto, da parte di ciascuna autorità,
della libertà dell’altra. Nel Paradiso, invece, il problema è impostato in maniera differente, se non addirittura antitetica.
Infatti il Poeta, oltre a dare un posto molto più rilevante ai problemi della Chiesa, che prima aveva quasi ignorati o visti in
relazione a quelli dell’Impero, sottolinea fortemente il valore religioso dell’Impero, che ha preparato l’incarnazione, e la
missione divina di Roma, accentuando, cioè, il primato della religione e considerando tutta la realtà e tutta la storia
soltanto nella luce della fede cristiana: egli Cosi, conclude il Brezzi, trapassa dall’aquila alla croce e si immerge nel
misticismo, unendo la sua anima a Dio in un supremo atto d’amore.
Per questo, Dante, dopo aver presentato nel canto
sesto la morte di Cristo come un atto legittimo della giurisdizione di Roma, morte che fu poi vendicata da un altro intervento
del potere imperiale romano (distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito), ne offre, nel canto settimo, la giustificazione
teologica, rilevando continuamente, con un’insistenza che non può essere casuale, il grande amore di Dio verso gli uomini.
Roma ha preparato il mondo a questa suprema manifestazione d’amore: Roma dunque, insieme con Cristo, ha salvato
l’umanità.
Si conclude così la teologia storica – nella quale Dante ha trasfigurato i valori politici in ideali
spirituali – impostata nel canto di Giustiniano.
Non occorre far parte del gruppo di coloro che il Flora definisce i
“mistici” dell’esegesi dantesca, “i quali dove non sentono poesia esaltano l’altezza del concetto teologico”, per riconoscere
la validità poetica del canto settimo: è solo necessario abbandonare la ricerca, alla quale ci ha abituati l’esperienza
romantica, della poesia pura, della lirica come vertice supremo dell’arte. Tale ricerca non è che un mito dell’estetismo
moderno, laddove la vita organica della Commedia non può che essere pensata nei termini di equilibrio in cui fu pensata da
Dante e dai suoi contemporanei, che accettavano la gerarchia poetica – consacrata dalla lunga tradizione classica nella quale i
seggi più alti appartenevano alla poesia epica e a quella didascalica. Non è possibile dunque separare la componente poetica da
quella dottrinaria, mettendo in rilievo la prima come una gemma di rara bellezza per confinare al bando la seconda quasi fosse
un peso morto, perché essa, nella Commedia, e più particolarmente nel Paradiso, offre i motivi e l’atmosfera psicologica
all’ispirazione poetica. Quest’ultima, nel canto settimo, si risolve in una lezione teologica animata da un amore
appassionato per la verità, dalla commozione di esprimere l’inesprimibile (di gran sentenza ti faran presente), che diventa
gioia dell’anima, ebbrezza del possesso della verità. Il canto appare epicamente avvivato dall’impeto teologico, che si
distende fin dall’inizio in immagini grandiose, misurate da altezze e precipizi: l’umana specie inferma giacque… questo
decreto, frate, sta sepolto alli occhi di ciascuno… la divina bontà… sfavilla sì che dispiega le bellezze esterne… da lei
sanza mezzo distilla… da essa sanza mezzo pione… per entro l’abisso dell’esterno consiglio… ir giuso con umiliate…
intese ir suso… la divina bontà… a rilevarvi suso fu contenta. Nella meditazione di Beatrice la tragica contrapposizione
dell’albero e della croce, della superbia di Adamo e dell’umiltà di Cristo appare investita e trasfigurata dalla forza
dell’amore divino, che scioglie il dramma del peccato, assolve la creatura che per secoli molti era stata immersa in grande
errore, la unisce a sé con un magnifico processo d’amore, che resterà il più grande, il più esaltante dal primo giorno della
creazione fino all’ultimo momento di vita del mondo. L’esilio della creatura si conclude nella gloria paradisiaca, sulle
tenebre terrene si distende la luce trionfale del cielo, l’eternità avvolge l’uomo diventato Dio per partecipazione. Un ritmo
vitale si sprigiona da questi versi, un respiro vasto e potente ne accompagna lo svolgersi, anche se qua e là riaffiora,
inevitabilmente, la durezza di certi nessi scolastici tra un passaggio e l’altro (dunque… ma… o che… o che…; tu
dici… tu dici) o l’aridità di certe formule filosofiche (cfr. ad esempio i versi 88-93 e 121-123). Il discorso di Beatrice,
iniziato con la visione disperante del peccato (versi 25-29), acquista nell’ultima parte tutto un senso verticale che lo
proietta nella contemplazione di Dio che dall’alto irraggia un mondo creato per ritornare, in ogni sua parte, a Lui, fino al
trionfo finale della risurrezione della carne. lI canto settimo si svolge, dunque, nella figura geometrica di un cerchio: esso
si chiude con un’immagine di luce e di gioia che si riallaccia, con un’armoniosa corrispondenza lirica, all’inno di
esultanza e di amore con il quale si era aperto.
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