Riassunto
Nel cielo del Sole Beatrice chiede agli spiriti sapienti di risolvere un
dubbio che si sta spacciando alla mente di Dante riguardo alla luminosità dei beati dopo la risurrezione della carne. Risponde
l’anima di Salomone, la quale afferma che non solo essi conserveranno la luce che li fascia ora, ma che i loro occhi corporei
saranno resi capaci di sopportare simile splendore. Intorno alle due corone che si erano formate precedentemente appare una
terza ghirlanda, così luminosa da abbagliare la vista di Dante. Allorché egli risolleverà gli occhi che aveva dovuto abbassare
di fronte a quel fulgore eccessivo, si accorgerà di essere giunto con Beatrice nel quinto cielo, quello di Marte, illuminato da
una luce rosseggiante. In questa sfera gli spiriti di coloro che hanno combattuto per la fede sono disposti su due liste
luminose, le quali si intersecano formando una croce greca. Le anime si muovono lungo i bracci della croce, scintillando con
maggiore o minore intensità a seconda del loro grado di beatitudine. Dalla croce esce un canto armonioso, ma Dante è in grado
di percepire la dolcezza della melodia, non il significato completo dell’inno. Tuttavia le uniche parole che giungono al suo
orecchio, “Resurgi” e “Vinci”, indicano il valore liturgico del canto innalzato dagli spiriti combattenti, che esaltano Cristo
come trionfatore della morte e del peccato.
Introduzione critica
È chiaro che Dante nel Paradiso ha
voluto costruire un quadro completo dell’ordine fisico, metafisico e morale dell’universo, ma è altrettanto chiaro che egli si
è proposto di innestare il discorso teologico nell’azione drammatica, in modo che questa offrisse l’occasione a quello. Così la
salita al primo cielo permette di affrontare il problema dell’ordine fisico dell’universo, l’incontro con Piccarda quello della
volontà dei beati, la figura di Giustiniano quello dell’Impero universale, tema che a sua volta prepara quello della redenzione
e così via. Occorreva tuttavia stabilire un rapporto vitale fra il discorso teologico e l’azione drammatica, affinché l’
occasione non si trasformasse in pretesto, magari faticosamente cercato, ma apparisse come la generatrice naturale di una
visione che, di canto in canto, scopriva il mondo della beatitudine e l’armonia del cosmo, fino a raccogliere l’uno e l’altra
nella visione di Dio nell’Empireo. La pagina dottrinale doveva diventare, cioè, momento vivo ed essenziale dell’azione stessa,
per non restare una pagina di trattato sapienziale. Nella prima parte del Paradiso questo rapporto teologia-azione resta, in
buona parte, irrealizzato, perché la teologia appare estranea al tessuto narrativo, occupando un posto preponderante nei
singoli canti senza fondersi con esso. Nei canti teologici che precedono il XIV il Poeta solo nel canto primo e nel terzo è
riuscito a stabilire veramente un’occasione poetica, un’adesione logica e fantastica del discorso all’azione: così nel canto
primo la domanda di Dante nasceva spontanea e naturale (ma ora ammiro com’io trascenda questi corpi levi) e la risposta, che
presentava l’armonico ritorno di tutte le cose verso Dio, accompagnava mirabilmente l’ascesa del Poeta e di Beatrice attraverso
i cieli. Il tema della risurrezione dei corpi nel canto XIV non ha neppure bisogno di una occasione che lo presenti, perché
esso fa parte della vita stessa dei beati; la domanda di Dante rientra tra quelle, numerose durante il corso del suo viaggio
nel terzo regno, in cui chiede alle anime beate notizie sul loro stato: diteli se la luce onde s’indora nostra sostanza,
rimarrà con voi etternalmente sì com’ell’è ora. Così alla gioia di cui si illuminano gli spiriti sapienti, perché, rispondendo
a questa richiesta, soddisfano un desiderio del Poeta, si unisce la gioia per la propria risurrezione, in modo che la
spiegazione teologica si trasferisce subito sul piano affettivo: i beati non solo fanno dono a Dante di una verità logicamente
dedotta da principii universali, ma rivelano la loro esultante attesa del momento in cui, rivestita la carne gloriosa e santa,
crescerà la visione di Dio, il loro ardor, il loro raggio. Nei versi 37-60 la teologia appare proprio come Dante la intende,
sorretta da una forte carica affettiva che è l’ebbrezza dello spirito anelante ad un’unione sempre più profonda con Dio. Il
ragionamento, dunque, non resta astratto e chiuso davanti alla visione paradisiaca, ma diventa esso stesso un mezzo per
rivelarla, per esaltare la felicità degli eletti, la luce e l’immensità dei cieli. La struttura sillogistica che sostiene
queste terzine si trasfigura in movimento poetico, in fervido circolo ritmico, splendente di immagini. Nel canto XIV, infatti,
il ritmo circolare – ripetizione di parole, ritorno di concetti uguali, riecheggiamento di note identiche – è la caratteristica
dominante, impostata fin dal primo verso (dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro). Subito dopo con questo ritmo il
Poeta affronta il tema della Trinità (quell’uno e due e tre… in tre e ‘n due e ‘n uno), fondendo alla definizione dogmatica
una ineffabile emozione poetica, con un “vertiginoso ritorno di note sopra se stesse” (Momigliano). Tuttavia tale mezzo
raggiunge la sua massima potenza espressiva nel breve discorso di Salomone, dove il ragionamento si trasfigura liricamente
grazie alla vibrante accensione di ardore e di immagini generata dal ritorno incessante delle stesse note. Questo ritmo
circolare, infatti, è ben lungi dall’essere uno statico avvolgimento di termini o concetti uguali, perché ad esso s’accompagna
un intensificarsi particolare delle immagini e dell’emozione lirica: dapprima un moto ascendente di luce e di amore che si
placa nella visione di Dio (versi 40-42), poi un moto discendente (che il Poeta ha già definito rifrigerio dell’etterna ploia)
che riporta quella luce e quell’amore da Dio alle anime, cosicché si ha “l’impressione d’un mistico e lucido delirio ” che
“rende evidente il rapimento nel quale fu concepito questo canto ” (Momigliano). Questo, inoltre, era l’unico ritmo con il
quale il Poeta poteva significare il misterioso processo di merito e di Grazia che lega l’uomo al suo Creatore, per cui la vita
divina rifluisce in lui perennemente: l’uomo e Dio chiusi in un cerchio di amore che richiama quello della vita trinitaria (e
non a caso Salomone inizia il suo discorso dopo che per tre volte si era alzato dai beati l’inno alla Trinità). La critica
riconosce nel canto XIV uno dei più alti e dei più ispirati del Paradiso. Certamente uno dei più unitari. Esso appare dominato
nella prima parte da un nucleo di intensa poesia, il tema della gloria del corpo risorto, che sembra esaurirsi dopo l’
umanissimo accenno al legame che anche nel mondo beato stringerà ognuno ai suoi cari. In realtà anche la seconda parte del
canto riecheggia, sia pure su un piano diverso, la prima, perché anch’essa è alimentata dal tema della risurrezione e dallo
stesso tono spirituale (la gioia della liberazione della carne e la gloria della beatitudine eterna): la croce non è più il
legno insanguinato sul quale il Figlio di Dio ha patito l’offesa suprema, ma è un vessillo luminoso che si stende per tutto il
cielo a testimonianza della vittoria sulle tenebre e sulla materia; la figura di Cristo che vi “balena” non è quella sofferente
dell’Uomo-Dio crocifisso, ma quella trionfante del Risorto, e le anime dei martiri della fede percorrono quella croce con un
moto di letizia incessante cantando un inno di risurrezione.
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- Letteratura Italiana - 200 e 300