Riassunto
Le anime dei giusti, raccolte nella maestosa figura dell’aquila, ricordano d’aver meritato la gloria dei cieli per aver
osservato sulla terra la giustizia e la misericordia, la quale è complemento indispensabile della giustizia. A loro Dante
chiede la spiegazione di un tormentoso dubbio, presente in lui da lungo tempo e riguardante il mistero della predestinazione.
L’aquila dichiara, innanzitutto, l’imperscrutabilità dei decreti divini: nessuna intelligenza umana potrà mai penetrare il
mistero della sapienza e della giustizia di Dio. Poi risponde alle domande che più frequentemente gli uomini si pongono intorno
alla predestinazione: perché sono condannati alla dannazione coloro che, non per colpa propria, non hanno mai conosciuto la
fede e sono morti senza battesimo? La risposta è una sola: Dio, sommo Bene, non può volere il male e l’ingiustizia. Gli uomini
devono essere paghi di questa verità: tutto ciò che Dio decide avviene secondo giustizia e amore: è più facile che entri nel
regno dei cieli un pagano che visse secondo le leggi di natura e secondo i dettami della ragione che non un cristiano il quale
non ubbidì ai comandamenti della sua fede. Nell’ultima parte del canto il Poeta leva una dura invettiva contro i malvagi
reggitori d’Europa. Nel giorno del Giudizio Universale la loro disonestà e la loro corruzione appariranno scritte a piene
lettere nel libro della giustizia divina.
Introduzione critica
Il ritmo caratteristico del Paradiso
– continua alternanza di fasi contemplative di momenti dominati da preoccupazioni terrene – si realizza pienamente nel canto
XIX, come già in quello precedente. Le due lezioni dell’aquila, infatti, si aprono l’una sulla sfera della teologia
(trattazione del tema della predestinazione), l’altra su quella della storia (rassegna dei malvagi reggitori d’Europa), la
prima sull’umile riconoscimento dei limiti dell’intelletto umano di fronte al mistero divino, la seconda sul giudizio,
imperiosa e deciso, relativo ai sovrani indegni. Questo fatto ha spinto una parte della critica a giudicare il canto XIX
frammentario nell’ispirazione e nell’esecuzione, per cui il discorso dell’aquila relativo alla predestinazione sarebbe una
digressione dottrinale, estranea all’atmosfera spirituale palpitante di vivi interessi terreni e sociali con la quale la
trilogia dei giusti e lo stesso canto XIX (versi 13-18) si erano aperti. Tale discorso, vertendo sui misteri divini, avrebbe
dovuto essere pronunciato, nel cielo seguente, dagli spiriti contemplativi, non essendo opportuno che “Dante cercasse qui
nell’aquila, simbolo della giustizia umana, la soluzione del suo angoscioso problema della giustizia divina” (Chimenz). Ma la
giustizia umana non è che la proiezione di quella divina (canto XVIII, versi 1 15-117), alla quale deve conformarsi in ogni suo
atto per essere santa e vera, e coloro che fecero della giustizia l’ideale supremo della loro vita possono essere ben degni di
affrontare il mistero dei decreti divini. La sfera teoretica e la sfera pratica in Dante, come in tutto il Medioevo, non furono
mai soggette ad arbitrarie scissioni: scienza e storia, mondo religioso e mondo politico erano gli elementi costitutori di
quell’ordine-forma dell’universo che il Poeta incominciò a vagheggiare dal quarto libro del Convivio e che divenne, secondo la
felice definizione del Cosmo, il concetto-fulcro della Commedia, per cui “tutti i problemi si risolvevano nella dimostrazione
di quell’ordine, tutta la storia si piegava a provarne in modo concreto l’attuazione”. Fra i più attenti lettori di questo
canto, il Sapegno è quello che ha puntualizzato con più chiarezza l’equilibrio, narrativo e rappresentativo, arditamente
dinamico del canto. La celebrazione della giustizia, che “è luce di Dio nell’ordine dell’universo”, è sentita, “dantescamente,
in termini drammatici e si attua in un vasto contrappunto di motivi intellettuali e morali… Il cruccio e l’irosa polemica del
Poeta per i segni dell’ingiustizia terrestre, sul piano politico, implicano un dubbio appena accennato sulla validità della
concezione provvidenziale della storia umana, e trovano rispondenza, sul piano teologico, nelle perplessità dottrinali
attinenti all’arcano dell’attuazione della giustizia divina nell’eterno. Ma la risoluzione di queste perplessità teologiche, in
una convinta accettazione del mistero e nel riconoscimento della corta vista dell’uomo, si riflette a sua volta in una più
serena valutazione delle contraddizioni storiche, destinate a risolversi nel quadro di un disegno provvidenziale”. Infatti la
lezione teologica si conclude, attraverso il delicato tratto della similitudine della cicogna, nella calma ampiezza prospettica
dei versi 97-99 e la rassegna dei principi si svolge tra il quietarsi dei lucenti incendi che formano l’aquila e le melodie di
quelle aire luci all’inizio del canto seguente. L’animazione lirica, nello svolgimento del tema della predestinazione,
giustifica l’interesse sempre rinnovantesi con cui si leggono i versi 40-90, a proposito dei quali occorre sottolineare una
caratteristica: ben 29 versi sono dedicati all’introduzione, elaborata e concettosa, del problema, la cui spiegazione,
ulteriormente rimandata, acuisce l’interesse e l’attenzione del lettore, benché questo esordio, martellando il principio dell’
insufficienza dell’intelletto umano, anticipi la conclusione. E’ un procedimento psicologico-stilistico che fa affiorare un
clima di attesa e di tensione (già impostato con l’ansiosa e ardente richiesta di Dante nei versi 25-33), poeticamente efficace
a preparare la trattazione di un problema che è soprattutto un dramma storico (la condanna del mondo antico che non conobbe la
fede) e che come tale fu sempre avvertito da Dante (nel Convivio e nella Monarchia), e a rilevare, per contrasto, la serena
soluzione di esso: Dio opera sempre secondo giustizia e secondo amore. L’analisi del dato stilistico ci rende ancora più certi
della straordinaria partecipazione affettiva del Poeta a quanto l’aquila viene dicendo. Il discorso impone subito la visione
del mistero di Dio (versi 40-41) e quindi dell’impotenza della mente umana di fronte ad esso, concludendosi nella potente
immagine del mare (versi 58-63). Allorché l’aquila entra nel vivo della questione, la sua lezione perde ogni rigidezza di
schema logico e scolastico, sviluppandosi con il libero movimento di una forma concreta e determinata: un uom nasce alla riva
dell’Indo… muore non battezzato… Il Poeta abbandona i titoli astratti di certi suoi discorsi teologici (si vedano, per
esempio, i versi 19-21 del canto IV che aprono il discorso sulla volontà assoluta e relativa: tu argomenti: “Se ‘l buon voler
dura, la violenza altrui per qual ragione di meritar mi scema la misura?”) e scompone le sequenze logiche per seguire l’
imprevedibile ordine poetico. La formulazione è condotta in modo drammatico attraverso lo scontro di domande (ov’è questa
giustizia? ov’è la colpa sua…?) e la risposta al quesito diventa subito ammonimento (or tu chi se’…) che ribadisce – con il
significato, con il suono, con il movimento dei versi – il senso del mistero divino, dal quale la lezione aveva preso inizio.
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