Riassunto
Dante rivolge al suo trisavolo una domanda piena di trepidazione e di
ansietà: quale sorte gli riserva il futuro? Già molte volte, scendendo lungo i cerchi dell’inferno o salendo- per i gironi del
purgatorio, ha udito oscure profezie che gli annunciavano anni di dolore e di esilio. Ora il Poeta chiede che la verità sulla
sua vita futura gli sia rivelata con tutta la chiarezza permessa a un beato che contempla in Dio, prima che essi si avverino,
gli eventi. Così risponde Cacciaguida: Dante dovrà abbandonare la città di Firenze, che si comporterà nei suoi riguardi come
una crudele matrigna. Il suo esilio sarà opera soprattutto delle macchinazioni politiche di Bonifacio VIII. La colpa delle
discordie che dilaniano Firenze sarà attribuita al partito vinto, ma presto il castigo divino si adatterà sui Neri e sul
pontefice. Dante proverà tutte le sofferenze, le difficoltà, le umiliazioni della povertà e di una vita randagia. Presto
sperimenterà anche la solitudine più completa, perché abbandonerà i suoi compagni d’esilio, incapaci e infidi. Troverà il suo
primo rifugio a Verona; Bartolomeo e Cangrande della Scala diventeranno i suoi munifici protettori. Allorché Cacciaguida ha
terminato di parlare, Dante confessa una sua dolorosa incertezza: se egli racconterà tutto ciò che ha visto nell’inferno e nel
purgatorio molti gli diventeranno nemici e gli negheranno aiuto e ospitalità. Ma – risponde Cacciaguida – egli non dovrà avere
alcun timore e dovrà “far manifesta” tutta la sua visione, perché i suoi versi costituiranno per tutti un vital nutrimento.
Proprio perché gli uomini credono più facilmente agli esempi e alle argomentazioni evidenti, sono state mostrate al Poeta,
nell’oltretomba, le anime di personaggi famosi.
Introduzione critica
Il canto XVII sembrerebbe
rifiutare il metro interpretativo con il quale ci siamo accostati alla lettura della Commedia: la convergenza nell’io di Dante
dell’individuo storico – con una sua esperienza di vita ben determinata, in un ambito di spazio e di tempo ben definito e
dell’individuo universale, quello che il Singleton definisce “chiunque”, ” chiunque, cioè, per grazia divina scelga di
compiere, o sia scelto a compiere, quel viaggio della mente che conduce a Lui in questa vita”, l’homo viator che si dirige
verso Dio mentre continua a dimorare tra i viventi. Nel canto si profilerebbe una frattura fra la componente etico-religiosa e
la componente lirico-storica e quest’ultima sarebbe l’unica musa ispiratrice. Cacciaguida non sarebbe altro che uno
sdoppiamento di Dante e il loro lungo colloquio la drammatizzazione di un soliloquio, poiché Dante nella Commedia evita “la
rappresentazione riflessiva della sua crisi e delle sue convinzioni fondamentali” (Momigliano), conferendo ad esse i contorni
rilevati e drammatici dei dialoghi, delle azioni, dei contrasti. Non più le pagine contemplative, solitarie, remote dal mondo
della giovanile, astratta Vita Nova, ma una opera creata da un “uomo fatto per vivere tra gli uomini, e tra essi e contro di
essi provare e raffinare le sue forze spirituali” con il concorso di una fantasia “che ha bisogno, come di nessun’altra, di una
realtà mobile e concreta “.Ma è proprio in questa capacità di tradurre un nodo di esperienze biografiche e di ragioni morali in
una lucida contemplazione di miti e di immagini che si realizza l’intento del Poeta di rappresentare un duplice processo di
redenzione: la sua redenzione personale e quella di tutta l’umanità. E’ “il punto di incontro, in cui convergono le due
componenti essenziali dell’ispirazione dantesca, è il tema etico-politico, che affonda le sue radici nella vicenda concreta
dell’uomo d’azione e dell’esule, e su quel fondamento costruisce i termini di una dottrina universalmente valida, ma non mai
astratta, sempre implicata in una trama di sentimenti e risentimenti, angosce e polemiche, speranze e nostalgie, impeti di
collera sdegnosa e desolati ripiegamenti contemplativi ” (Sapegno). Se completiamo queste osservazioni rilevando che
caratteristica del poeta medievale è quella di presentarsi sempre nelle vesti del saggio e del profeta, cioè di colui che
possiede. e rivela la “scienza” e come tale agisce sui destini dell’umanità, possiamo concludere che il XVII è il canto dove la
duplice natura del poema, personale e universale, lirica e dottrinale, trova la sua trascrizione più stilizzata e sublimata.
Poiché il centro di questa scienza e di questa rivelazione è la contemplazione del divino e in Dio la creatura riceve la
propria giustificazione e la propria esaltazione, man mano che ci si avvicina a quel punto luminoso i problemi si chiarificano,
le speranze si concretano, l’uomo conosce meglio se stesso nei suoi limiti e nelle sue possibilità. E il Poeta acquista piena
consapevolezza della sua missione, a Cacciaguida chiedendo l’investitura di un proposito già maturo. Nessuno ha mai
solennizzato come Dante l’importanza del suo apostolato, nessuno essendo convinto, come lui, di aver ricevuto una rivelazione
speciale, nella “prodigiosa sicurezza di uno che cammina al suo segno senza dubitarne” (Apollonio), perché già sa che ogni
destino d’uomo è divino, già conosce che gli sono dati i soccorsi per la salvezza. Occorre infatti ricordare che vari secoli di
meditazione cristiana, da Sant’Agostino a San Bonaventura e a San Tommaso, avevano già fissato lo schema, il disegno entro il
quale avviene, per successive tappe, la conversione dell’anima dal peccato alla Grazia: Dante, sotto questo punto di vista, non
inventa nulla, ma proprio dal fatto che la struttura del suo poema è fondata su tale meditazione secolare e che la verità che
egli rivela è la verità rivelata da Dio nella Sacra Scrittura, deriva la sua “prodigiosa sicurezza”, perché egli “vede da
poeta, e da poeta rappresenta ciò che nella dottrina cristiana è già concettualmente elaborato e convenuto” (Singleton).Se
sull’io universale non si fosse inserito l’io storico di Dante avremmo una Summa sapienziale, non un’opera di umanissima
poesia: perché fra la visione del ritorno dell’anima a Dio e l’adempimento della sua missione – che è l’atto di rivelare agli
uomini la verità che gli è stata comunicata – si interpone la sua persona con la propria esperienza di peccato e di Grazia per
“assicurare che quel che uomo ha fatto, uomo, soccorso, può fare” (Apollonio). Oltre a quelle del peccato e della Grazia, il
canto XVII testimonia una terza esperienza-fulcro – quella dell’esilio per mezzo della quale il Poeta conosce la solitudine
morale necessaria per farsi giudice dell’umanità; anche questa vicenda personale, dunque, subisce un processo di
trasvalutazione, come la storia di Firenze nei canti XV e XVI. Il Ramat riassume con queste parole il significato della
trilogia di Cacciaguida: La storia di Firenze e la vicenda di Dante divengono nella Commedia due miti religiosi essenziali e
inseparabili; e se lungo il poema corrono con tracciati formalmente distinti, anche se talvolta incrociandosi, la loro unità
sostanziale si manifesta nei tre canti di Cacciaguida, i quali definiscono insieme il significato diabolico universale della
città – ed era un modo con cui Dante riconosceva la centralità effettuale della sua terra nella storia contemporanea – e la
figura eroico-religiosa della sua vittima, la cui vicenda autobiografica si inserisce strettamente stazioni del Calvario,
qualità del suo messaggio – nella logica metafisica che regge l’ordine terrestre e cosmico”.
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