Già i miei occhi erano nuovamente fissi nel volto della mia donna, e con gli
occhi anche l’animo, che si era distolto da ogni altro oggetto.
E Beatrice non sorrideva: ma cominciò a parlare dicendomi:
“Se ti mostrassi il mio riso, tu diventeresti come Semele, quando fu incenerita (per aver contemplato Giove nel fulgore della
sua luce divina);
perché la mia bellezza che, come hai potuto vedere, sempre più risplende, quanto più si sale per i cieli
del paradiso,
se non si moderasse, risplenderebbe tanto, che la tua facoltà visiva di uomo, di fronte al suo fulgore,
sarebbe come una fronda che la folgore schianta.
Noi siamo innalzati al settimo cielo di Saturno, il quale trovandosi.
congiunto con la costellazione del Leone, irraggia ora sulla terra la sua influenza mescolata a quella del Leone.
Fissa la
tua attenzione in quel che vedranno i tuoi occhi, e fa che questi diventino specchi in cui si rifletta l’immagine che ti
apparirà in questo cielo”.
Chi sapesse qual era l’appagamento del mio sguardo nel contemplare l’aspetto beato di Beatrice,
quando io volsi gli occhi ad altro,
potrebbe capire, paragonando l’una cosa con l’altra (cioè il piacere di guardarla con
quello di obbedirle), quanto mi era gradito obbedire alla mia guida celeste.
Dentro al pianeta trasparente che girando
intorno al mondo, porta il nome di Saturno, re caro al mondo perché sotto il suo governo ogni malizia umana rimase come
spenta,
vidi una scala del colore dell’oro su cui risplendeva un raggio di sole, la quale si alzava tanto verso l’alto, che
i miei occhi non ne vedevano la cima.
E vidi pure scendere giù per i gradini tanti spiriti luminosi, che io pensai che ogni
luce che appare nel cielo si diffondesse da questa fonte.
E come, secondo il loro istinto, le cornacchie, all’alba, volano a
schiera per scaldarsi le ali intirizzite,
poi alcune vanno via senza più tornare, altre ritornano al nido da dove erano
partite, e altre girando intorno, restano là dove si trovano,
in tal modo mi parve si comportassero qui quelle luci
sfavillanti che scesero insieme dalla scala, non appena si imbatterono in un certo gradino.
E lo spirito che si fermò più
vicino a noi, divenne così splendente, che io dicevo dentro di me: “Intendo bene l’amore che tu mi manifesti (sfavillando)”.
Ma Beatrice dalla quale aspetto l’indicazione di come e quando devo parlare o tacere, non fa cenno: perciò io, contro il
mio desiderio, credo di agire bene non facendo domande.
Per cui essa, che vedeva il motivo del mio silenzio attraverso la
contemplazione di Dio che tutto vede, mi disse: “Sciogli il tuo ardente desiderio di parlare”.
E io cominciai: “Il mio
merito non mi fa degno della tua risposta; ma per amore di colei che mi concede di interrogarti,
o anima beata che te ne
stai nascosta dentro alla luce, segno della tua letizia, dimmi il motivo che ti ha indotta a fermarti così vicino a me;
e
dimmi perché in questo cielo di Saturno non si ode il dolce canto paradisiaco, che nei cieli più bassi risuona tanto devoto”.
Mi rispose: “La tua facoltà auditiva, come quella visiva, è d’uomo mortale; perciò qui non si canta per la stessa
ragione per cui Beatrice non ha riso.
Sono disceso tanto giù per i gradini di questa scala santa, solo per far festa a te
con le parole e con la luce che mi riveste:
né un amore più grande che negli altri spiriti mi fece più rapida a scendere;
perché un amore maggiore o uguale al mio arde in ogni anima che è di qui in su, per questa scala, così come te lo manifesta il
loro risplendere.
Ma l’amore divino, che ci fa ancelle pronte ad ubbidire alla volontà divina governante il mondo, assegna
in sorte qui a ciascuna di noi l’ufficio che essa compie, come tu vedi”.
lo replicai: “O anima santa che risplendi, io
comprendo bene come in questa corte celeste il vostro libero amore basta a farvi eseguire i decreti della divina
provvidenza;
ma ciò che mi sembra difficile a capire è questo: perché tu sola, fra le tue compagne, fosti predestinata a
questo ufficio (di venirmi a parlare)”.
Non avevo ancora pronunciato l’ultima parola, che lo spirito luminoso fece centro
del suo punto mediano, girando su se stesso come una veloce macina:
poi lo spirito ardente d’amore chiuso dentro la luce,
rispose: “La luce divina converge sopra di me, penetrando attraverso questa luce, nel cui seno sono racchiusa,
e la sua
potenza, unita alla mia intelligenza, m’innalza tanto al di sopra di me, che io riesco a vedere la suprema essenza, Dio, da cui
quella luce deriva,
Da questa visione viene la letizia di cui risplendo; perché io uguaglio la luminosità del mio splendore
alla visione che io ho di Dio, per quanto essa riluce.
Ma anche quell’anima che nel cielo più s’illumina di luce, anche quel
serafino che più penetra con l’occhio in Dio, non potrebbe soddisfare alla tua domanda;
poiché quello che tu chiedi si
addentra tanto nel segreto degli eterni decreti di Dio, che è separato dall’intelligenza di ogni essere creato.
E quando
ritornerai, riferisci questo al mondo degli uomini, cosicché esso non ardisca più dl indirizzarsi verso una meta cosi
alta.
L’intelligenza umana, che qui in cielo risplende di luce, sulla terra è avvolta dal fumo dell’errore perciò considera
come possa l’intelligenza in terra quello che non può neppure quando il cielo l’ha assunta nella sua gloria”.
Le sue parole
mi segnarono il termine della questione, così che io l’abbandonai, e mi limitai a domandare umilmente all’anima chi fosse.
“Tra le due sponde d’Italia (del Tirreno e dell’Adriatico), s’innalzano, non molto lontani dalla tua patria, i monti dell’
Appennino tanto alti, che i tuoni risuonano assai più in basso (durante i temporali ),
e formano una gobba che si chiama
Catria, sotto la quale c’è un sacro eremo (il monastero di Fonte Avellana), il quale soleva essere destinato solo al servizio
di Dio.
Così l’anima riprese a parlarmi per la terza volta; poi, continuando, aggiunse: “A Fonte Avellana mi dedicai con
tanta vocazione al servizio di Dio,
che solo con cibi conditi con olio d’oliva trascorrevo agevolmente le estati e gli
inverni, pago della mia vita di contemplazione .
Quel monastero soleva allora fruttare al paradiso larga messe di anime, ora
è diventato così sterile, che presto ciò dovrà manifestarsi al mondo.
In quel monastero io fui col nome di Pietro Damiano, e
Pietro Peccatore mi chiamai nella comunità di Nostra Signora (presso Ravenna) sul litorale Adriatico”.
Mi rimanevano pochi
anni della mia vita mortale, quando fui chiamato e indotto a prendere quel cappello cardinalizio che oggi passa soltanto da un
prelato cattivo a uno peggiore.
San Pietro e San Paolo, il vaso d’elezione dello Spirito Santo vennero sulla terra affamati
e scalzi, accettando il cibo da qualunque casa ospitale.
Ora invece i moderni prelati vogliono chi li sorregga da una parte
e dall’altra e chi li conduca, tanto son corpulenti!, e chi seguendoli tenga loro alzato lo strascico.
Cavalcando, coi loro
mantelli ricoprono anche i cavalli; sicché sotto una stessa copertura procedono due bestie (la cavalcatura e il cavaliere):
o pazienza di Dio che sopporti tanta vergogna!”
A queste parole io vidi numerose luci scendere della scala di gradino in
gradino e roteare su di se, e ad ogni giro diventare più luminose.
Vennero a fermarsi attorno all’anima di Pier Damiano, ed
emisero un grido cosi alto, che non potrebbe trovare un paragone in questa terra:
né io potei capire le parole; tanto mi
assordò il suo rimbombo simile ad un tuono.
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