Riassunto
Alle anime che hanno accompagnato l’apparizione
di Cristo nel cielo delle stelle fisse, Beatrice chiede di rivelare a Dante una parte della sapienza divina che esse
possiedono. Poiché uno dei beati – San Pietro – è uscito dalla sua schiera per farsi incontro ai due pellegrini, Beatrice lo
prega di interrogare Dante intorno alla prima delle tre virtù teologali, la fede. Il Poeta inizia il difficile esame davanti al
principe degli apostoli rispondendo prima di tutto alla domanda: che cos’è la fede? Dopo aver richiesto alcuni chiarimenti
relativi alle risposte ricevute, San Pietro esorta Dante a dichiarare se egli possiede o meno la fede. Ottenuta una risposta
affermativa, il Santo interroga il Poeta intorno alle fonti dalle quali deriva la prima virtù teologale. Dopo che, concluso
positivamente l’esame, tutti i beati hanno innalzato il canto del ” Te Deum laudamus “, San Pietro esige da Dante una solenne
professione di fede, al termine della quale l’apostolo manifesta la propria soddisfazione circondando per tre volte il Poeta
con la sua luce e benedicendolo.
Introduzione critica
La presenza di una situazione d’esame
quale quella che si viene creando nei tre canti dedicati alle virtù teologali è determinata dalla struttura stessa della
Commedia, struttura che si configura come rapporto continuo e diretto fra maestro e discepolo: Dante-Virgilio, Dante-Beatrice,
Dante-Stazio (o Marco Lombardo o San Tommaso ecc.). Perciò parlare di “esame” a proposito di un canto della Commedia è parlare
di uno degli aspetti fondamentali di essa. Tuttavia in questi canti il Poeta ricorre addirittura all’interrogatorio e alla
risposta scolastica, costruendo un vero e proprio “ambiente” di esame, dove il maestro avanza le sue domande e le sue obiezioni
e il discepolo risponde e difende, controbattendo, le sue posizioni. Ciò significa che in questi canti l’io-personaggio di
Dante avanza in primo piano, polarizzando ogni attenzione. Se è vero che ogni artista considera la sua opera come realtà e che
in ciascuna opera si riflette appieno la personalità del suo autore, bisogna rilevare che con la Commedia ci troviamo di fronte
a un caso diverso, perché Dante non solo scrive il suo poema, ma ne è anche il personaggio protagonista, il quale si muove,
parla, discute e sente alla maniera di tutti gli altri personaggi che, derivati dal mondo del mito o della storia, immagina di
incontrare sul suo cammino. Tuttavia, nel Paradiso, Dante-personaggio appare sempre più come figura centrale, nella quale
convergono discorsi sentimenti, visioni, laddove nell’Inferno (in misura molto minore nel Purgatorio) la sua figura appariva
circondata e posta in antagonismo con quella degli altri protagonisti. Questa precisazione permette di rilevare una delle
caratteristiche dei canti XXIV, XXV, XXVI: la profonda immedesimazione di Dante nella visione e nella vita del mondo
paradisiaco, per cui egli diventa in questo momento l’unico attore responsabile (le figure dei tre apostoli appaiono generiche
e indeterminate: è il proprio personaggio, studiato in ogni suo atteggiamento e in ogni sua reazione psicologica, che interessa
al Poeta in questo momento; i tre grandi dignitari del regno celeste – la cui vita terrena, che li ha preparati a quella
dignità, non ha bisogno di una rappresentazione che dia loro una nuova forma – servono solo per impostare l’azione e il
dialogo, dei quali è centro il personaggio Dante). Sbaglierebbe però chi cercasse nel canto XXIV (o nei due immediatamente
seguenti) una lirica pura, una confessione abbandonata dell’animo che ripercorre le tappe della sua vicenda religiosa, perché
la solennità dell’ambiente circostante (sono presenti tutte le schiere del trionfo di Cristo), l’alto grado nella gerarchia
celeste dell’interlocutore, San Pietro, il rigore filosofico della dissertazione, il “Te Deum laudamus” cantato dalle anime
alla fine dell’esame, la triplice incoronazione di Dante da parte dell’apostolo alla conclusione della professione di fede,
sono elementi non solo che concorrono ad accentuare l’importanza di questo momento nell’economia generale della cantica, ma
anche a consacrarne il significato universale. La corte celeste non si è riunita solo per ascoltare Dante e il principe degli
apostoli non ha lasciato la sua schiera solo per interrogare Dante, ma per ascoltarlo e interrogarlo come simbolo di tutta la
umanità redenta prima che essa si accosti alla visione finale di Dio, e per imporgli, dopo aver ricordato che Scipione l’
Africano per volere della provvidenza difese a Roma la gloria del mondo, di riferire al mondo quanto egli ha lì udito e appreso
(canto XXVII, versi 61-66). Il compito di Dante non è destinato a cristallizzarsi allorché il pellegrino è giunto nell’alto dei
cieli, ma prosegue tornando dal cielo alla terra, dove la sua scienza e la sua poesia risuoneranno con parole umane, e tuttavia
piene di assolutezza divina; è una missione che lo pone “medium tra finito e infinito, maestro eroico della logica sublime che
insegna il termine assoluto d’ogni vicenda relativa” (Ramat).La lettura, in questa linea prospettica del canto XXIV, permette
di invalidare il giudizio critico del Croce, il quale ritiene di trovarsi di fronte a una scena “affatto umana”: un uomo
illustre, un gran dotto, bonariamente interroga un fanciullo su cose elementari. E bonariamente, e incoraggiando, San Pietro
comincia: di’, buon cristiano, fatti manifesto: fede che è?… E il fanciullo, alquanto timido, si rivolge verso colei che gli
è maestra, ed ella lo esorta col cenno del sembiante: perch’io spandessi l’acqua di fuor del mio interno fonte. Le risposte del
bravo ragazzo sono una per una approvate e lodate dall’esaminatore, che a ogni risposta fa seguire una nuova domanda, col
desiderio che quegli si faccia sempre più onore; mentre il candidato sale via via dalla timidezza alla sicurezza e dal
rispondere secondo la lezione appresa all’eloquenza entusiastica e personale: quest’è il principio, quest’è la favilla che si
dilata in fiamma poi vivace, e, come stella in cielo, in me scintilla. Al che… San Pietro, il buon esaminatore, ricinge Dante
tre volte del suo lume… e il candidato è tutto lieto, soddisfatto di sé: sì nel dir gli piacqui!” Inoltre con questo suo
giudizio il Croce contraddice quanto ha affermato a proposito del valore poetico dei canti di contenuto teologico: in essi la
sorgente della poesia sarebbe nel sentimento di gioia dell’insegnare e dell’apprendere, ” nel godimento di un’intima luce, meno
inebriante ma più calma e ferma di quella che lo avvolge e abbarbaglia” di fronte alle ultime visioni paradisiache. Il Getto,
tuttavia, ha superato tale posizione crociana, affermando che il carattere poetico di queste pagine del Paradiso è in uno stato
d’animo tutto particolare, che egli ha definito “gusto della teologia”: nell’interesse e nella passione con cui Dante si
accosta al destino divino dell’uomo, alla sua dignità sacra, alla garanzia di una immortalità vera, alla vita dello spirito.
- 200 e 300
- Riassunto e Critica Paradiso
- Dante
- Letteratura Italiana - 200 e 300