Riassunto
Scomparsi alla vista dei due pellegrini celesti il punto luminoso e i nove cerchi angelici ruotanti intorno ad esso, il
Poeta si volge di nuovo a guardare Beatrice: la bellezza della sua donna è tale che egli si sente incapace di descriverla.
Riprendendo a parlare, Beatrice rivela al discepolo che essi non si trovano più nel Primo Mobile, l’ultimo dei cieli fisici, ma
sono ascesi all’Empireo. Nella decima sfera ha la sua sede Dio e godono l’eterna beatitudine le due “milizie” del cielo, quella
degli angeli e quella dei beati, questi ultimi con lo stesso aspetto che avranno nel giorno del Giudizio Universale, allorché
ciascuno riprenderà il proprio corpo. Dopo essere rimasto abbagliato dallo splendore dell’Empireo, il Poeta, riacquistando la
vista, si accorge che i suoli occhi sono diventati capaci di sopportare anche la luce più fulgida. Dapprima Dante osserva un
fiume di luce che scorre tra due rive fiorite. Dal fiume escono innumerevoli faville che, dopo essersi posate sui fiori,
ritornano nel miro gurge dal quale erano uscite. Questa visione – spiega Beatrice – è solo un “umbrifero prefazio” di ciò che è
realmente e che Dante, per le sue deboli capacità umane, non può ancora cogliere nella sua integrità. Allorché il suo sguardo
ha preso nuovo vigore, il Poeta vede che quel fiume di luce ha assunto una forma circolare e che i fiori non erano altro che i
locati e le faville gli angeli. La visione diventa sempre più chiara: l’Empireo ha la forma di un grande anfiteatro, i cui
seggi sono occupati dai santi. Su un seggio vuoto Dante scorge una corona: quello – commenta Beatrice – è il posto riservato ad
Arrigo VII, l’imperatore che tenterà, inutilmente, di porre termine alle lotte politiche che tormentano l’Italia, e che troverà
nel pontefice Clemente V il suo più fiero avversario.
Introduzione critica
La mistica rosa dell’
Empireo è il punto di chiusura e di trasfigurazione delle componenti strutturali che hanno fatto nerbo, di canto in canto,
attraverso tutto il Paradiso. Se la Sacra Scrittura ha offerto al Poeta lo spunto per l’immagine iniziale del fiume di luce,
ben presto al ricordo biblico si sovrappone la consapevolezza e la sapienza dell’artista, che ricorre ad una serie ininterrotta
di immagini (due rive dipinte di mirabil primavera… d’ogni parte si mettìen ne’ fan; quasi rubin che oro circumscrive… miro
gurge… li topazii… ‘l rider dell’erbe… come clivo in acqua di suo imo si specchia… nel verde e ne’ fioretti opimo…
rosa sempiterna, che si dilata ed ingrada e redole), legate a una ben precisa tradizione di stile – quella del dolce stil novo
– e a quel senso del prezioso, del raffinato e dell’elegante che Dante ha tante volte mostrato nella Vita Nova e nella stessa
Commedia, in particolare nella terza cantica. Tuttavia non è possibile – senza falsarne il significato – astrarre, isolandola,
questa raffinatezza di linguaggio e di immagini, perché essa è un elemento della complessa poesia del canto XXX; ma quest’
ultima non si esaurisce qui, come non si esaurisce neppure in motivi puramente mistici. Il Varese scrive con molta efficacia:
“La visione dell’Empireo e la gioia che l’accompagna, non è, a propriamente parlare, gioia mistica, ma intellettiva,
conoscitiva: la gioia, lo slancio e la commozione sentimentale, il movimento, il trepidare dell’arbore, viene forse dopo, non
prima. Di questo sentire sono prova la struttura, la composizione artistica e l’ispirazione dei canti trentesimo e
trentunesimo. Si direbbe che lo spirito francescano e mistico abbia alimentato momenti e motivi particolari nell’ispirazione
dantesca, abbia soprattutto mosso il calore e la libertà di questa ispirazione, ma non regga l’ordine e la composizione, né in
senso strutturale, né in senso estetico. La poesia di questo canto gioca sulla continua presenza e consapevolezza dell’autore
ch’è insieme personaggio: la visione si accompagna sempre con la storia e con la coscienza dei modi di essa, con la
collaborazione attiva e continua dello scrittore. Qui tuttavia lo stesso tramutarsi di visione in visione, questo passaggio
dalla fiumana alla rosa, è sentito nella precisione e nella netta intensità, nella fermezza dell’ordine e dell’intelligenza,
che gusta la bellezza quasi come un aspetto, un limpido manifestarsi in se stessa. La stessa poesia didascalica si raccoglie e
si riflette nel vigore, ma insieme nella chiarezza dell’espressione. Le immagini non hanno un valore episodico o antologico, ma
sono un chiarimento, sono diretta espressione di ciò che il Poeta ha visto e vuol farci vedere; sono, in questo senso, il
paradiso stesso”. Se nel canto XXXIII il motivo dominante sarà quello di una grandezza eccedente le umane capacità, nei tre
canti che lo precedono, e in modo particolare nel XXX, il motivo dominante è da cercarsi in un sentimento di ebbrezza sempre
temperato da un controllato atteggiamento ragionativo, il quale non pretende di definire, attraverso una serie di immagini, il
mondo dell’Empireo, bensì di suggerirne la vastità infinita e la ricchezza incommensurabile. È sufficiente, a questo proposito,
prendere in esame l’ultima parte del canto. Dopo il turbine d’ebbrezza che troviamo nella terzina 97 (o isplendor di Dio…),
ecco un’immagine classicamente precisa e concreta (e’ si distende in circular figura…), e, dopo il felicissimo ritorno alla
visione del verde e dei fioretti nel delicato quadro dei beati colti in un moto di candido autocompiacimento, il Poeta misura
lo spazio che lo circonda (la vista mia nell’ampio e nell’altezza non si smarriva), annotando, con precisa attenzione, che le
leggi della natura perdono ogni validità dove Dio è presente direttamente. Pervaso ormai dalla presenza del divino, lo spirito
dantesco non dimentica, al tempo stesso, l’attualità spaziale e temporale. Vibrante, ma sempre dominato da una insuperabile
padronanza tecnica, appare l’entusiasmo del Poeta nella terzina seguente (nel giallo della rosa sempiterna…), dove la
dilatazione coloristica ed estensiva è tale da superare tutte le amplificazioni precedenti, ed è concentrata tutta nel secondo
verso, in virtù di un’abile struttura sintattica e metrica: in tre verbi sono sintetizzate tre immagini piene e scandite (si
dilata… ingrada… redole) Poi l’entusiasmo sembra travolgere il Poeta (mira quanto è ‘l convento delle bianche stole! Vedi
nostra città quant’ella gira: vedi li nostri scanni sì ripieni), finché l’imperiosa necessità di sostare, di evitare ogni
possibile degenerazione emotiva e stilistica, non verrà bruscamente ad interromperlo. Si avrà allora, in un certo senso, un
completo capovolgimento di prospettiva: da una contemplazione, per così dire, quantitativa, dell’Empireo, si passa a quella
condensata in un solo punto, il gran seggio preparato per l’alto Arrigo. Anche ora, quando sarebbe facile per Dante
abbandonarsi a una facile polemica politica, la sua poesia resta controllatissima; la sublimazione della figura dell’imperatore
tedesco potrebbe essere definita l'”idealizzato archiviamento” (Guidobaldi) del proprio sogno politico: eppure non c’è nulla
che riveli il suo interno tormento, nulla che parli di odio o di personale vendetta. Anche nei confronti del papa ingannatore
il Poeta lascia l’ultima parola a Dio, che deciderà secondo la sua giustizia. Una potente e continua intelligenza ha qui
distribuito gli elementi e i motivi della rappresentazione, ha trovato un chiaro rapporto tra il cielo che si esprime nelle
immagini e nelle forme della terra, e la terra, le cose e gli interessi della terra che prendono posto e dimensione in cielo,
tra quello che Dante oggettivamente vuol farci sentire nella visione del paradiso e lo sguardo con il quale egli segue e
descrive la tensione e il procedere di questa visione.
- 200 e 300
- Riassunto e Critica Paradiso
- Dante
- Letteratura Italiana - 200 e 300