Riassunto
San Bernardo
innalza alla Vergine un’ardente preghiera, nella quale, dopo aver celebrato la bontà di Maria e la sua opera di intermediaria
di grazia tra Dio e gli uomini, invoca una protezione particolare sul suo discepolo. Questi, che dal profondo dell’inferno fino
alla sommità dell’Empireo ha potuto conoscere le diverse condizioni delle anime, è pronto ormai a contemplare la visione finale
di Dio, purché la Vergine lo liberi da ogni residuo impedimento terreno. San Bernardo conclude la sua invocazione chiedendo a
Maria di conservare la purezza di cuore che Dante ora possiede, mentre i beati, prima fra tutti Beatrice, ne accompagnano le
parole congiungendo le mani in un silenzioso gesto di preghiera. Gli occhi della Vergine, fissi sul Santo, dimostrano che la
sua supplica è stata accolta. Poi si volgono verso la luce eterna di Dio. San Bernardo, prima di scomparire, invita,
sorridendo, Dante a guardare verso l’alto. Ma ormai il pellegrino non ha più bisogno di nessun incoraggiamento: il suo animo è
pronto alla contemplazione divina. Dopo aver affermato che egli non ricorda quasi nulla della visione ricevuta, il Poeta rivela
di aver visto l’essenza divina come una luce intensissima. Nel profondo di questa luce tutto ciò che è sparso e diviso nell’
universo, appare fuso in mirabile unità, legato ad un vincolo d’amore. Dante, pur riconoscendo che le sue parole sono
insufficienti ad esprimere quanto egli, in un solo attimo, ha potuto contemplare, descrive il momento in cui i suoi occhi
videro, sotto forma di tre cerchi di uguale dimensione, ma di colore diverso, il mistero della Trinità. Nel secondo cerchio –
rappresentante il Figlio – appare poi un’immagine umana, per significare il mistero dell’incarnazione. A questo punto la mente
del Poeta, giunta alla soglia del mistero più grande, e incapace, quindi, di proseguire con le sole sue forze, viene illuminata
dalla grazia divina, che le concede l’intuizione del mistero dell’incarnazione.
Introduzione critica
I versi che hanno subìto la più sconcertante vicenda critica ed esegetica di tutta la Commedia sono certamente quelli
che aprono l’ultimo canto del Paradiso e che presentano la preghiera di San Bernardo alla Vergine. I primi commentatori (fino
al Landino) ritennero di trovarsi di fronte a una pagina di teologia. I critici romantici, dal Tommaseo in poi, a una pagina di
oratoria (in seguito, su questo giudizio, insistettero particolarmente il Croce e il Chimenz). Un altro gruppo di lettori del
canto XXXIII, fra i quali il Pistelli e il Del Lungo, trova proprio in questa “eloquenza” la nota altamente positiva della
preghiera alla Vergine. Rimuovendo le interpretazioni rigidamente polemiche, tentano un risultato – felicemente raggiunto – di
compromesso, il Casella e il Momigliano. Il primo, infatti, osserva che “la preghiera di San Bernardo si diffonde e si innalza
con la calda e vibrante eloquenza dell’affetto” il secondo vede che “gli elementi dogmatici sono immersi e trasfigurati in un
alta e sottolineata cadenza”. Anche il Fubini, che analizza accuratamente i dati stilistici della preghiera, la ritiene,
nella prima parte, un’orazione che “si svolge secondo un ritmo lineare, ribattendo un unico motivo, senza dissimulare lo schema
retorico su cui poggia e a cui è affidata la sua efficacia”, e, nella seconda parte (versi 22-39), un invocazione intensa e
appassionata che dà rilievo, potenza e ampiezza al moto dell’animo verso l’alto. Per risolvere questo problema critico, che
forse ha polarizzato troppo l’interesse degli studiosi, a danno della seconda parte del canto, certamente più valida dal punto
di vista poetico, è indispensabile cercare l’intenzione del Poeta nello scrivere questi versi, chiarendo se e in che misura
quelle parole così studiate e, al tempo stesso, così fervide, abbiano vita puramente fantastica o anche vita storica: Dante,
cioè, ha voluto offrirci una sua preghiera o invece “la preghiera” nei termini e nella natura più vicini a quelli che per lunga
consuetudine correvano sulla bocca dei fedeli o erano oggetto di meditazione e di studio? L’Auerbach e il Vallone, che hanno
ricercato tutte le possibili fonti storiche della preghiera mariana e le hanno minuziosamente confrontate con i versi
danteschi, sono d’accordo sulla seconda ipotesi senza ricorrere alla superata formula crociana del “romanzo teologico”, occorre
ricordare che nella Commedia l’esigenza della “struttura” è pur sempre presente: al termine del Paradiso, prima della
celebrazione finale di Dio, appariva indispensabile la celebrazione della Vergine madre di Dio, di colei che la teologia
presentava come intermediaria di grazia fra il cielo e la terra. Con questa esigenza di struttura si è fuso, fortunatamente per
la poesia, il particolare culto di Dante verso Maria, presentata, fin dall’inizio della Commedia, come sua salvatrice (Inferno
II, 94-99) e invocata mane e sera (Paradiso XXIII, 88-89). Tenendo presente che la tradizione letteraria precedente a Dante
offre innumerevoli forme di “elogio” da quello classico, che presenta funzioni e fatti mitici, a quello ebraico, che parafrasa
la essenza e l’onnipotenza di Dio, a quello paleo-cristiano, che comincia a fondere il dogma con la storia di Cristo) e che nei
testi patristici medievali – a cominciare da quelli di San Bernardo – l’inno alla Vergine è fra i più frequenti, è facile
concludere che Dante ha voluto inserirsi in questa tradizione. Poiché la sua doveva essere una “preghiera” e non un brano di
lirico abbandono (come sarà la famosa canzone alla Vergine del Petrarca), Dante non poteva discostarsi dalla natura della
preghiera, cioè da una necessaria aderenza teologica e morale, e, contemporaneamente, da quella scia di suggestioni e di echi
emotivi che la preghiera imprime nell’animo dell’orante. Era, questa, la prova più impegnativa per l’uomo e per il poeta:
aderire alla tradizione ed essere poeta, rispettare la natura della preghiera e rinverdirla di poesia. Dante usa tutto il
materiale della tradizione dell’elogio cristiano (l’elemento drammatico, lo storico, il figurale), condensandolo e
organizzandolo. Il canto – scrive il Vallone – “nasce su concetti o anche parole e immagini di tradizione con un vigore e un
tono veramente inconfondibili: sintesi, legamenti, ellissi di passaggi e di contro amplificazione gaudiosa e su tutto e in
tutto vigile senso di stile… Se poi a tutto questo unite l’enorme difficoltà della materia, l’altezza dell’argomento, che in
Dante-uomo suscitava apprensioni di sentimento e di intelletto, la preghiera ci sembrerà sì “una libera creazione della
commossa fantasia” [Cosmo] del Poeta, ma, soprattutto, e per la sua natura, un canto umano”. Se i motivi principali sono quelli
dogmatici, e l’elemento emotivo, nel senso di una parafrasi sentimentale degli eventi riguardanti la Vergine, manca, la
lucidità contenutistica e stilistica, che sembra essere il prodotto di un piano consapevole e rigoroso, non è soltanto
perspicuità razionale, ma irraggiamento poetico, perché il fervore dell’emozione è espresso proprio attraverso l’ordine
tematico, l’armonia della frase, la varietà dei modi sintattici, attraverso quegli elementi, cioè, sui quali è fondata la
poesia di tutta la Commedia. Ma la preghiera alla Vergine, con il suo ossequio alla teologia, la sua solennità di canto la sua
concretezza di umana rappresentazione, la sua ansia del trascendente non è che il preludio del canto XXXIII, non presenta che
le prime note di quella ispirazione epica che, cimentandosi con la metafisica, tenterà la rappresentazione di Dio. M. Rossi
sostiene che Dante ha compiuto un “vano tentativo di poetizzazione dell’astratto”, e che, immaginando Dio come un triplice
cerchio di luce, non ha fatto altro che offrire la più semplice e astratta immagine di perfezione presentatasi al suo spirito.
Ma la idea che Dante vuol darci di Dio non è già nella figura del triplice cerchio, ma è in tutto il canto, in quell’ansia di
cogliere Dio, in quella sensazione di averlo attinto e subito smarrito.
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