Divus Augustus Paragrafi da 51 a 55: versione svolta - StudentVille

Divus Augustus, Paragrafi da 51 a 55

Paragrafo 51
Clementiae civilitatisque eius multa et magna documenta sunt. Ne enumerem quot et quos diversarum partium venia et incolumitate donatos principem etiam in civitate locum tenere passus sit: Iunium Novatum et Cassium Patavinum e plebe homines alterum pecunia alterum levi exilio punire satis habuit cum ille Agrippae iuvenis nomine asperrimam de se epistulam in vulgus edidisset hic convivio pleno proclamasset neque votum sibi neque animum deesse confodiendi eum. Quadam vero cognitione cum Aemilio Aeliano Cordubensi inter cetera crimina vel maxime obiceretur quod male opinari de Caesare soleret conversus ad accusatorem commotoque similis: “Velim” inquit “hoc mihi probes; faciam sciat Aelianus et me linguam habere plura enim de eo loquar”; nec quicquam ultra aut statim aut postea inquisiit. Tiberio quoque de eadem re sed violentius apud se per epistulam conquerenti ita rescripsit: “Aetati tuae mi Tiberi noli in hac re indulgere et nimium indignari quemquam esse qui de me male loquatur; satis est enim si hoc habemus ne quis nobis male facere possit.”

Paragrafo 52
Templa quamvis sciret etiam proconsulibus decerni solere in nulla tamen provincia nisi communi suo Romaeque nomine recepit. Nam in urbe quidem pertinacissime abstinuit hoc honore; atque etiam argenteas statuas olim sibi positas conflavit omnis exque iis aureas cortinas Apollini Palatino dedicavit. Dictaturam magna vi offerente populo genu nixus deiecta ab umeris toga nudo pectore deprecatus est.

Paragrafo 53
Domini appellationem ut maledictum et obprobrium semper exhorruit. Cum spectante eo ludos pronuntiatum esset in mimo: “O dominum aequum et bonum!” et universi quasi de ipso dictum exsultantes comprobassent et statim manu vultuque indecoras adulationes repressit et insequenti die gravissimo corripuit edicto; dominumque se posthac appellari ne a Liberis quidem aut nepotibus suis vel serio vel ioco passus est atque eius modi blanditias etiam inter ipsos prohibuit. Non temere urbe oppidove ullo egressus aut quoquam ingressus est nisi vespera aut noctu ne quem officii causa inquietaret. In consulatu pedibus fere extra consulatum saepe adoperta sella per publicum incessit. Promiscuis salutationibus admittebat et plebem tanta comitate adeuntium desideria excipiens ut quendam ioco corripuerit quod sic sibi libellum porrigere dubitaret “quasi elephanto stipem.” Die senatus numquam patres nisi in curia salutavit et quidem sedentis ac nominatim singulos nullo submonente; etiam discedens eodem modo sedentibus valere dicebat. Officia cum multis mutuo exercuit nec prius dies cuiusque sollemnes frequentare desiit quam grandior iam natu et in turba quondam sponsaliorum die vexatus. Gallum Cerrinium senatorem minus sibi familiarem sed captum repente oculis et ob id inedia mori destinantem praesens consolando revocavit ad vitam.

Paragrafo 54
In senatu verba facienti dictum est: “Non intellexi” et ab alio: “Contra dicerem tibi si locum haberem.” Interdum ob immodicas disceptantium altercationes e curia per iram se proripienti quidam ingesserunt licere oportere senatoribus de re p. loqui. Antistius Labeo senatus lectione cum vir virum legeret M. Lepidum hostem olim eius et tunc exsulantem legit interrogatusque ab eo an essent alii digniores suum quemque iudicium habere respondit. Nec ideo libertas aut contumacia fraudi cuiquam fuit.

Paragrafo 55
Etiam sparsos de se in curia famosos libellos nec expavit et magna cura redarguit ac ne requisitis quidem auctoribus id modo censuit cognoscendum posthac de iis qui libellos aut carmina ad infamiam cuiuspiam sub alieno nomine edant.

Versione tradotta

Paragrafo 51
Vi sono molte e significative prove determinanti della sua indulgenza e della sua affabilità. Non è il caso di elencare a quanti e a quali membri del partito avversario egli concesse il perdono e l’amnistia e permise anche di occupare un posto importante nella comunità; considerò sufficiente punire Giunio Novato e Cassio Padovano, due plebei, uno con una multa, l’altro con un breve esilio, sebbene il primo avesse fatto diffondere una lettera, sotto il nome di Agrippa, con espressioni molto dure nei confronti dell’imperatore e benché il secondo avesse affermato, nel mezzo di un banchetto, che a lui non mancava né il desiderio né il coraggio di uccidere Augusto.
Durante un’inchiesta, rimproverando ad un certo Emilio Eliano di Cordova, come colpa più grave di tutte le altre, il fatto che fosse solito parlar male di Cesare, si rivolse all’accusatore e gli disse come un furioso: «Vorrei che tu dimostrassi questo crimine; farei sapere ad Eliano che anch’io possiedo una lingua con la quale potrei dire parecchie cose sul suo conto»; e non indagò più su nulla, né immediatamente, né in seguito. A Tiberio, che pure per mezzo di una lettera si lamentava di questo stesso argomento, ma con maggior violenza, rispose così: «Mio caro Tiberio, alla tua età evita di badare a questo particolare e di indignarti eccessivamente del fatto che vi sia qualcuno pronto a parlar male di te; infatti, se abbiamo questo, basta che nessuno ci possa fare del male.»

 
Paragrafo 52
Sebbene sapesse che anche dai proconsoli di solito gli venivano dedicati templi, tuttavia non ne accettò in nessuna provincia senza associare il nome di Roma al proprio. E così a Roma egli rifiutò assai ostinatamente questo onore; fece perfino fondere tutte le statue d’argento che un tempo gli erano state dedicate e col denaro ricavato da queste consacrò tripodi d’oro ad Apollo Palatino. Mentre il popolo con grande insistenza gli offriva la dittatura, egli, inginocchiatosi, dopo aver fatto cadere la toga dalle spalle, con il petto nudo, supplicò di evitarla.
Paragrafo 53
Inorridì sempre davanti al titolo di «signore» come davanti ad un’ingiuria infamante. Poiché, mentre egli assisteva ad uno spettacolo teatrale, in un mimo erano state pronunciate le parole: «O signore giusto e buono!» e tutti gli spettatori avevano approvato esultanti, come se l’espressione fosse rivolta a lui, Augusto, non solo pose subito fine, con il gesto e con lo sguardo, a queste adulazioni indecorose, ma il giorno seguente le biasimò anche con un severissimo proclama; in seguito non permise che lo fosse chiamato signore né dai suoi figli, né dai suoi nipoti, sia sul serio, sia per scherzo, e proibì anche tra loro lusinghe di tal genere. Non a caso usciva da una città o da qualche borgo, oppure vi entrava da qualche parte soltanto di sera o di notte, per non disturbare nessuno per il saluto. Durante il consolato procedeva quasi sempre a piedi tra il pubblico, mentre fuori dal consolato vi andava spesso su una lettiga coperta. Alle udienze pubbliche ammetteva anche i plebei, accogliendo le richieste dei visitatori con una cortesia tale che rimproverò uno di loro scherzosamente, perché esitava a tendergli la sua petizione così che sembrava porgesse una piccola moneta ad un elefante. Nel giorno di seduta del Senato non salutava mai i senatori se non dentro la curia, per altro seduti, chiamando ciascuno per nome, senza che nessuno glielo suggerisse; anche mentre se ne andava, porgeva loro il saluto allo stesso modo a tutti, seppur seduti. Mantenne reciproche relazioni con molti di loro e non smise di assistere alle solennità celebrate da ciascuno di loro prima di diventare ormai vecchio e anche perché una volta fu maltrattato nella folla nel giorno di un fidanzamento. l non fosse mai stato, Quando il senatore Gallo Terrinio, di certo non suo amico intimo, fu colpito improvvisamente da una malattia agli occhi e intendeva lasciarsi morire di fame, Augusto, confortandolo di persona, lo riportò alla vita.

 
Paragrafo 54
Mentre egli parlava in Senato, qualcuno gli disse: «Non ho capito» e un altro: «Ti replicherei, se ne avessi l’occasione.» Talvolta poiché, a causa dei dibattiti troppo violenti, usciva dalla curia in collera, alcuni gli gridavano dietro che ai senatori doveva essere consentito di discutere sulle questioni dello Stato. Durante la scelta dei senatori, quando ciascuno doveva scegliersi un collega, Antistio Labeone designò M. Lepido, un tempo nemico di Augusto e allora in esilio; poi, quando si sentì chiedere da Augusto se non ve ne fossero altri più degni, rispose che ciascuno aveva la propria opinione. Perciò né la franchezza né l’ostinazione arrecarono danno a nessuno.
Paragrafo 55
Non ebbe paura neppure dei vari scritti contro di lui diffusi in Senato, ma li confutò con grande zelo e, senza nemmeno indagare sugli autori, decretò soltanto di essere informato, da allora in poi, a proposito di coloro che, sotto falso nome, divulgavano opuscoli o poemetti per diffamare chicchessia.

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