Divus Iulius, Paragrafi da 76 a 80 - Studentville

Divus Iulius, Paragrafi da 76 a 80

Paragrafo 76
Tuttavia altre sue azioni e altri suoi discorsi fecero pendere la bilancia a suo sfavore a tal punto che si crede non solo che abbia abusato del suo potere ma anche che sia stato ucciso a buon diritto. Infatti non solo accettò onori eccessivi come il consolato a vita la dittatura e la prefettura dei costumi a vita oltre al titolo di imperatore» il soprannome di «padre della Patria» una statua in mezzo a quelle dei re un palco nell’orchestra ma permise anche che gli venissero conferite prerogative più grandi della sua condizione umana: un seggio dorato in Senato e davanti al tribunale un carro e una lettiga nelle processioni del circo templi altari statue accanto a quelle degli dei un letto imperiale un flàmine Luperci che un mese fosse chiamato con il suo nome; inoltre non assunse e assegnò alcune cariche se non a proprio piacimento. Esercitò il terzo e il quarto consolato mantenendo soltanto il titolo accontentandosi del potere dittatoriale attribuitogli insieme con i consolati eppure in quei due anni designò due consoli come sostituti per gli ultimi tre mesi cosicché in quell’intervallo di tempo non indisse altre elezioni oltre a quelle degli edili e dei tribuni della plebe e nominò prefetti al posto dei pretori incaricati di amministrare gli affari cittadini in sua assenza. Ma per la morte improvvisa di un console avvenuta il giorno prima delle calende di gennaio conferì a chi la chiedeva la carica lasciata vacante per qualche ora. Con la stessa sfrontatezza a dispetto della tradizione consacrata stabilì magistrature per più anni concesse gli ornamenti consolari a dieci pretori anziani e ammise in Senato alcuni discendenti di Galli semibarbari dopo aver accordato loro il diritto di cittadinanza. Inoltre mise i suoi servi personali a capo del Tesoro e delle imposte pubbliche. Affidò la cura e il comando delle tre legioni rimaste di stanza ad Alessandria a Rufione figlio di un suo liberto e suo amante.

Paragrafo 77
Nec minoris inpotentiae uoces propalam edebat ut Titus Amp[r]ius scribit: nihil esse rem publicam appellationem modo sine corpore ac specie. Sullam nescisse litteras qui dictaturam deposuerit. debere homines consideratius iam loqui secum ac pro legibus habere quae dicat. eoque arrogantiae progressus est ut haruspice tristia et sine corde exta quondam nuntiante futura diceret laetiora cum uellet; nec pro ostento ducendum si pecudi cor defuisset.

Paragrafo 78
Verum praecipuam et exitiabilem sibi inuidiam hinc maxime mouit. adeuntis se cum plurimis honorificentissimisque decretis uniuersos patres conscriptos sedens pro aede Veneris Genetricis excepit. quidam putant retentum a Cornelio Balbo cum conaretur assurgere; alii ne conatum quidem omnino sed etiam admonentem Gaium Trebatium ut assurgeret minus familiari uultu respexisse. idque factum eius tanto intolerabilius est uisum quod ipse triumphanti et subsellia tribunicia praeteruehenti sibi unum e collegio Pontium Aquilam non assurrexisse adeo indignatus sit ut proclamauerit: ‘repete ergo a me Aquila rem publicam tribunus!’ et nec destiterit per continuos dies quicquam cuiquam nisi sub exceptione polliceri: ‘si tamen per Pontium Aquilam licuerit.’

Paragrafo 79
Adiecit ad tam insignem despecti senatus contumeliam multo arrogantius factum. nam cum in sacrificio Latinarum reuertente eo inter inmodicas ac nouas populi acclamationes quidam e turba statuae eius coronam lauream candida fascia praeligata inposuisset et tribuni plebis Epidius Marullus Caesetiusque Flauus coronae fasciam detrahi hominemque duci in uincula iussissent dolens seu parum prospere motam regni mentionem siue ut ferebat ereptam sibi gloriam recusandi tribunos grauiter increpitos potestate priuauit. neque ex eo infamiam affectati etiam regii nominis discutere ualuit quanquam et plebei regem se salutanti Caesarem se non regem esse responderit et Lupercalibus pro rostris a consule Antonio admotum saepius capiti suo diadema reppulerit atque in Capitolium Ioui Optimo Maximo miserit. quin etiam uaria fama percrebruit migraturum Alexandream uel Ilium translatis simul opibus imperii exhaustaque Italia dilectibus et procuratione urbis amicis permissa proximo autem senatu Lucium Cottam quindecimuirum sententiam dicturum ut quoniam fatalibus libris contineretur Parthos nisi a rege non posse uinci Caesar rex appellaretur.

Paragrafo 80
Quae causa coniuratis maturandi fuit destinata negotia ne assentiri necesse esset. Consilia igitur dispersim antea habita et quae saepe bini terniue ceperant in unum omnes contulerunt ne populo quidem iam praesenti statu laeto sed clam palamque detrectante dominationem atque assertores flagitante. peregrinis in senatum allectis libellus propositus est: ‘Bonum factum: ne quis senatori nouo curiam monstrare uelit!’ et illa uulgo canebantur:

Gallos Caesar in triumphum ducit idem in curiam:
Galli bracas deposuerunt latum clauum sumpserunt.

Quinto Maximo suffecto trimenstrique consule theatrum introeunte cum lictor animaduerti ex more iussisset ab uniuersis conclamatum est non esse eum consulem. post remotos Caesetium et Marullum tribunos reperta sunt proximis comitiis complura suffragia consules eos declarantium. subscripsere quidam Luci Bruti statuae: ‘utinam uiueres!’ item ipsius Caesaris:

Brutus quia reges eiecit consul primus factus est:
hic quia consules eiecit rex postremo factus est.

conspiratum est in eum a sexaginta amplius Gaio Cassio Marcoque et Decimo Bruto principibus conspirationis. qui primum cunctati utrumne in Campo per comitia tribus ad suffragia uocantem partibus diuisis e ponte deicerent atque exceptum trucidarent an in Sacra uia uel in aditu theatri adorirentur postquam senatus Idibus Martiis in Pompei curiam edictus est facile tempus et locum praetulerunt.

Versione tradotta

Paragrafo 76
Tuttavia altre sue azioni e altri suoi discorsi fecero pendere la bilancia a suo sfavore a tal punto che si crede non solo che abbia abusato del suo potere ma anche che sia stato ucciso a buon diritto. Infatti non solo accettò onori eccessivi, come il consolato a vita, la dittatura e la prefettura dei costumi a vita, oltre al titolo di imperatore», il soprannome di «padre della Patria», una statua in mezzo a quelle dei re, un palco nell'orchestra, ma permise anche che gli venissero conferite prerogative più grandi della sua condizione umana: un seggio dorato in Senato e davanti al tribunale, un carro e una lettiga nelle processioni del circo, templi, altari, statue accanto a quelle degli dei, un letto imperiale, un flàmine, Luperci, che un mese fosse chiamato con il suo nome; inoltre non assunse e assegnò alcune cariche se non a proprio piacimento. Esercitò il terzo e il quarto consolato mantenendo soltanto il titolo, accontentandosi del potere dittatoriale attribuitogli insieme con i consolati, eppure in quei due anni designò due consoli come sostituti per gli ultimi tre mesi, cosicché in quell’intervallo di tempo non indisse altre elezioni oltre a quelle degli edili e dei tribuni della plebe, e nominò prefetti al posto dei pretori, incaricati di amministrare gli affari cittadini in sua assenza. Ma per la morte improvvisa di un console, avvenuta il giorno prima delle calende di gennaio, conferì a chi la chiedeva la carica lasciata vacante per qualche ora. Con la stessa sfrontatezza, a dispetto della tradizione consacrata, stabilì magistrature per più anni, concesse gli ornamenti consolari a dieci pretori anziani e ammise in Senato alcuni discendenti di Galli semibarbari, dopo aver accordato loro il diritto di cittadinanza. Inoltre mise i suoi servi personali a capo del Tesoro e delle imposte pubbliche. Affidò la cura e il comando delle tre legioni, rimaste di stanza ad Alessandria, a Rufione, figlio di un suo liberto e suo amante.

Paragrafo 77
Come scrive Tito Amp[r]io, pronunciava pubblicamente discorsi caratterizzati da non minore prepotenza: «La Repubblica non è altro che un nome vano, senza consistenza e senza evidenza. Silla, nel momento in cui rinunciò alla dittatura, fu uno sprovveduto. Ormai gli uomini mi devono parlare con più rispetto e considerare legge quello che dico.» Arrivò ad un punto tale di arroganza che una volta, quando un aruspice annunciò che i presagi erano funesti e le vittime senza cuore, disse che «sarebbero stati più favorevoli quando lui lo avesse voluto e che non si doveva considerare un prodigio il fatto che una bestia fosse priva di cuore».

Paragrafo 78
Ma fu soprattutto a partire da questo fatto che egli suscitò verso di sé un odio profondo e mortale. Egli ricevette davanti al tempio di Venere Genitrice, rimanendo seduto, tutti i senatori che si presentavano al suo cospetto con moltissimi decreti che gli conferivano i più alti onori.
Alcuni ritengono che sia stato trattenuto da Cornelio Balbo, mentre tentava di alzarsi; altri invece pensano che non provò nemmeno, ma che al contrario guardò con aria per nulla amichevole Gaio Trebazio che lo esortava ad alzarsi. E questo fatto apparve tanto più intollerabile, cioè che egli stesso, mentre passava su un carro di trionfo davanti ai seggi dei tribuni, si indignò del fatto che, in tutto il collegio, soltanto Panzio Aquila non si era alzato, a tal punto che gridò: «Tribuno Aquila, richiedimi dunque la Repubblica.» e per più giorni consecutivi, non mancò di promettere qualcosa a qualcuno a questa unica condizione: «Solo qualora Aquila lo avrà permesso.»

Paragrafo 79
A così grande disprezzo nei riguardi del Senato, aggiunse un fatto caratterizzato da molta più arroganza. Infatti, poiché uno della folla aveva collocato sulla sua statua una corona di lauro legata con un nastro bianco, mentre Cesare ritornava dalle feste latine tra acclamazioni smodate ed insolite del popolo e poi i tribuni della plebe Epidio Marullo e Cesezio Flavo avevano ordinato di togliere il nastro alla corona e di trascinare in prigione l'autore del gesto, Cesare, infuriato, sia perché l'allusione al regno aveva avuto scarso successo, sia perché, come sosteneva, gli era stata tolta la gloria di rifiutare il regno, dopo aver rimproverato severamente i tribuni, li privò della carica.
Da allora non fu più in grado di eliminare il sospetto infamante di aver aspirato anche al titolo di re, benché, una volta, al popolo che lo salutava con il nome di re, avesse risposto di essere Cesare e non re e durante i Lupercali, davanti ai rostri, avesse rifiutato e fatto portare in Campidoglio, nel tempio di Giove Ottimo Massimo, la corona che più volte era stata avvicinata alla sua testa dal console Antonio. Inoltre si diffusero diverse dicerie secondo le quali egli era in procinto di partire per Alessandria o per Troia, dopo aver portato con sé le ricchezze dell'Impero e dopo aver decimato l'Italia istituendo leve e dopo aver affidato agli amici l'amministrazione di Roma; inoltre circolò la voce che, nel corso della successiva seduta del Senato, il quindecemviro Lucio Cotta avrebbe proposto di chiamare Cesare col titolo di re, poiché nei libri sibillini era scritto che i Parti potevano essere sconfitti soltanto da un re.

Paragrafo 80
Questo fu il motivo che spinse i congiurati ad attuare i loro progetti, affinché non dovessero necessariamente essere d’accordo. Allora tutti fusero in uno solo i piani, fino ad allora elaborati distintamente, che avevano escogitato in gruppi di due o tre persone, dato che anche il popolo non era più contento del regime in corso, ma, di nascosto o apertamente, denigrava il tiranno e richiedeva urgentemente i liberatori. Fu pubblicato questo biglietto indirizzato agli stranieri ammessi in Senato: «Buona fortuna! Che nessuno voglia indicare la curia ad un nuovo senatore» e si cantavano i celebri motti:

Cesare conduce i Galli in trionfo e anche in Senato;
I Galli hanno abbandonato i calzoni e indossato il laticlavio.

Quando in teatro un littore, secondo l’usanza, ordinò di annunciare l'entrata di Quinto Massimo, nominato console supplente per tre mesi, tutti gli spettatori gridarono che quello non era console. Durante le elezioni successive alla revoca di Cesezio e Marullo, si trovarono numerosi voti di coloro che li designavano come consoli. Alcuni scrissero sul basamento della statua di Lucio Bruto: «Oh, se tu fossi ancora vivo!», e di quella dello stesso Cesare:

Bruto, poiché scacciò i re, fu eletto console per primo.
Costui, poiché ha scacciato i consoli, alla fine è stato proclamato re.

Oltre sessanta cittadini cospirarono contro di lui, sotto la guida di Gaio Cassio, Marco e Decimo Bruto. Essi, inizialmente indecisi se farlo cadere dal ponte e sgozzarlo, una volta catturato, durante le elezioni, quando in Campo Marzio egli avrebbe chiamato i tribuni a votare, oppure se assalirlo sulla via Sacra, o ancora mentre entrava in teatro, dopo che fu convocata la riunione del Senato alle idi di marzo nella curia di Pompeo, facilmente scelsero data e luogo.

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