Numidae paucis diebus iussa efficiunt. litterae Adherbalis in senatu
recitatae quarum sententia haec fuit: “Non mea culpa saepe ad vos oratum mitto patres conscripti sed vis Iugurthae subigit quem
tanta libido extinguendi me invasit ut neque vos neque deos immortalis in animo habeat sanguinem meum quam omnia malit. Itaque
quintum iam mensem socius et amicus populi Romani armis obsessus teneor; neque mihi Micipsae patris mei beneficia neque vestra
decreta auxiliantur; ferro an fame acrius urgear incertus sum. Plura de Iugurtha scribere dehortatur me fortuna mea et iam
antea expertus sum parum fidei miseris esse; nisi tamen intellego illum supra quam ego sum petere neque simul amicitiam vestram
et regnum meum sperare. utrum grauius existimet nemini occultum est. Nam initio occidit Hiempsalem fratrem meum deinde patrio
regno me expulit. Quae sane fuerint nostrae iniuriae nihil ad vos. Verum nunc vestrum regnum armis tenet me quem vos
imperatorem Numidis posuistis clausum obsidet; legatorum verba quanti fecerit pericula mea declarant. Quid est relicuum nisi
vis vestra quo moveri possit? nam ego quidem vellem et haec quae scribo et illa quae antea in senatu questus sum uana forent
potius quam miseria mea fidem verbis faceret. Sed quoniam eo natus sum ut Iugurthae scelerum ostentui essem non iam mortem
neque aerumnas tantummodo inimici imperium et cruciatus corporis deprecor. regno Numidiae quod vestrum est uti libet consulite;
me manibus impiis eripite per maiestatem imperi per amicitiae fidem si ulla apud vos memoria remanet aui mei Masinissae.”
Versione tradotta
In pochi giorni i Numidi eseguono gli ordini. La lettera di
Aderbale venne
letta in senato; questo era il suo tenore:
«Se io spesso vi rivolgo suppliche, padri coscritti, non è per colpa
mia: sono costretto dalla prepotenza di Giugurta, che è preso da una tale
smania di finirmi, da non aver alcun
riguardo né di voi né degli dèi
immortali e da volere il mio sangue più di ogni altra cosa. Così, ormai
da
quattro mesi io, alleato e amico del popolo romano, sono stretto
d'assedio e non mi sono di aiuto né i benefici di
mio padre Micipsa né i
vostri decreti; non so neppure se sia la spada o la fame a minacciarmi di
più. La
mia sorte mi dissuade dallo scrivere ancora di Giugurta, sapendo
ormai per esperienza che agli infelici si dà poco
credito. Mi rendo
conto, però, che le sue mire vanno al di là della mia persona e che non
può aspirare
contemporaneamente alla vostra amicizia e al mio regno. Quale
delle due alternative sia più importante per lui non è
un segreto per
nessuno, dal momento che prima ha ucciso mio fratello Iempsale e poi ha
cacciato me dal
regno paterno. Ammettiamo pure che queste offese
riguardino me e non voi. Ora, però, si è impadronito con le armi di
un
regno che è vostro; stringe d'assedio me che voi avete posto sul trono di
Numidia; in qual conto tenga
le parole dei vostri legati lo attestano i
pericoli in cui mi trovo. Che cosa ormai può smuoverlo, se non le vostre
armi? Quanto a me, vorrei proprio che queste cose che scrivo e quelle di
cui mi lamentai l'altra volta in
senato fossero prive di fondamento,
piuttosto di dovervi persuadere con la mia sventura. Ma poiché io sono
nato per essere la prova della malvagità di Giugurta, vorrei almeno
scongiurare non già la morte o la sventura, ma la
tirannia del nemico e le
torture. Al regno di Numidia, che è vostro, provvedete come vi piace, ma
sottraete
me a quelle mani empie, per la maestà dell'impero, per la lealtà
dovuta all'amicizia, se in voi resta ancora
qualche ricordo del mio avo
Massinissa».
- Letteratura Latina
- Par 1-29
- Sallustio