Bellum Iugurthinum, Paragrafo 24 - Studentville

Bellum Iugurthinum, Paragrafo 24

Numidae paucis diebus iussa efficiunt. litterae Adherbalis in senatu

recitatae quarum sententia haec fuit: “Non mea culpa saepe ad vos oratum mitto patres conscripti sed vis Iugurthae subigit quem

tanta libido extinguendi me invasit ut neque vos neque deos immortalis in animo habeat sanguinem meum quam omnia malit. Itaque

quintum iam mensem socius et amicus populi Romani armis obsessus teneor; neque mihi Micipsae patris mei beneficia neque vestra

decreta auxiliantur; ferro an fame acrius urgear incertus sum. Plura de Iugurtha scribere dehortatur me fortuna mea et iam

antea expertus sum parum fidei miseris esse; nisi tamen intellego illum supra quam ego sum petere neque simul amicitiam vestram

et regnum meum sperare. utrum grauius existimet nemini occultum est. Nam initio occidit Hiempsalem fratrem meum deinde patrio

regno me expulit. Quae sane fuerint nostrae iniuriae nihil ad vos. Verum nunc vestrum regnum armis tenet me quem vos

imperatorem Numidis posuistis clausum obsidet; legatorum verba quanti fecerit pericula mea declarant. Quid est relicuum nisi

vis vestra quo moveri possit? nam ego quidem vellem et haec quae scribo et illa quae antea in senatu questus sum uana forent

potius quam miseria mea fidem verbis faceret. Sed quoniam eo natus sum ut Iugurthae scelerum ostentui essem non iam mortem

neque aerumnas tantummodo inimici imperium et cruciatus corporis deprecor. regno Numidiae quod vestrum est uti libet consulite;

me manibus impiis eripite per maiestatem imperi per amicitiae fidem si ulla apud vos memoria remanet aui mei Masinissae.”

Versione tradotta

In pochi giorni i Numidi eseguono gli ordini. La lettera di
Aderbale venne

letta in senato; questo era il suo tenore:
«Se io spesso vi rivolgo suppliche, padri coscritti, non è per colpa

mia: sono costretto dalla prepotenza di Giugurta, che è preso da una tale
smania di finirmi, da non aver alcun

riguardo né di voi né degli dèi
immortali e da volere il mio sangue più di ogni altra cosa. Così, ormai
da

quattro mesi io, alleato e amico del popolo romano, sono stretto
d'assedio e non mi sono di aiuto né i benefici di

mio padre Micipsa né i
vostri decreti; non so neppure se sia la spada o la fame a minacciarmi di
più. La

mia sorte mi dissuade dallo scrivere ancora di Giugurta, sapendo
ormai per esperienza che agli infelici si dà poco

credito. Mi rendo
conto, però, che le sue mire vanno al di là della mia persona e che non
può aspirare

contemporaneamente alla vostra amicizia e al mio regno. Quale
delle due alternative sia più importante per lui non è

un segreto per
nessuno, dal momento che prima ha ucciso mio fratello Iempsale e poi ha
cacciato me dal

regno paterno. Ammettiamo pure che queste offese
riguardino me e non voi. Ora, però, si è impadronito con le armi di

un
regno che è vostro; stringe d'assedio me che voi avete posto sul trono di
Numidia; in qual conto tenga

le parole dei vostri legati lo attestano i
pericoli in cui mi trovo. Che cosa ormai può smuoverlo, se non le vostre

armi? Quanto a me, vorrei proprio che queste cose che scrivo e quelle di
cui mi lamentai l'altra volta in

senato fossero prive di fondamento,
piuttosto di dovervi persuadere con la mia sventura. Ma poiché io sono

nato per essere la prova della malvagità di Giugurta, vorrei almeno
scongiurare non già la morte o la sventura, ma la

tirannia del nemico e le
torture. Al regno di Numidia, che è vostro, provvedete come vi piace, ma
sottraete

me a quelle mani empie, per la maestà dell'impero, per la lealtà
dovuta all'amicizia, se in voi resta ancora

qualche ricordo del mio avo
Massinissa».

  • Letteratura Latina
  • Par 1-29
  • Sallustio

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