Sed isdem temporibus Q. Catulus et C. Piso neque gratia
neque pretio Ciceronem inpellere potuere uti per Allobroges aut alium indicem C. Caesar falso nominaretur. Nam uterque cum illo
gravis inimicitias exercebat: Piso oppugnatus in iudicio pecuniarum repetundarum propter cuiusdam Transpadani supplicium
iniustum Catulus ex petione pontificatus odio incensus quod extrema aetate maxumis honoribus usus ab adulescentulo Caesare
victus discesserat. Res autem opportuna videbatur quod is privatim egregia liberalitate publice maxumis muneribus grandem
pecuniam debebat. Sed ubi consulem ad tantum facinus inpellere nequeunt ipsi singillatim circumeundo atque ementiundo quae se
ex Volturcio aut Allobrogibus audisse dicerent magnam illi invidiam conflaverant usque eo ut nonnulli equites Romani qui
praesidi causa cum telis erant circum aedem Concordiae seu periculi magnitudine seu animi mobilitate inpulsi quo studium suum
in rem publicam clarius esset egredienti ex senatu Caesari gladio minitarentur.
Versione tradotta
Ma in quello stesso momento, Q. Catulo e G.
Pisone, né con preghiere, né
con il loro credito, né con danaro, poterono spingere Cicerone a fare
falsamente il nome di Cesare per mezzo degli Allobrogi o di qualche
delatore. Infatti entrambi nutrivano per quello
una grande ostilità:
Pisone in un processo per concussione era stato da lui attaccato per un
supplizio
ingiustamente inflitto a un Gallo transpadano; Catulo ardeva
d'odio dopo la sua candidatura al pontificato, poiché
egli, nel colmo
dell'età, investito delle più alte cariche, era uscito sconfitto dal
giovanissimo Cesare.
Sembrava poi una circostanza opportuna il fatto che
Cesare, per la sua straordinaria liberalità in privato e per la
sua
magnificenza nelle opere pubbliche, si era fortemente indebitato. Ma
poiché non riescono a indurre il
console a un crimine così grande, essi
stessi singolarmente, dandosi d'attorno e seminando menzogne che dicono
aver udito da Volturcio e dagli Allobrogi, riescono a suscitare contro
Cesare un grande sfavore, fino al punto
che alcuni cavalieri romani che
erano di presidio in armi intorno al Tempio della Concordia, spinti sia
dalla gravità del pericolo sia da mobilità d'animo, affinché il loro zelo
verso la repubblica fosse più chiaro,
minacciarono con le spade Cesare che
usciva al Senato.
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