Tertius vero ille finis deterrimus, ut,
quanti quisque se ipse faciat, tanti fiat ab amicis. Saepe enim in quibusdam aut animus abiectior est aut spes amplificandae
fortunae fractior. Non est igitur amici talem esse in eum qualis ille in se est, sed potius eniti et efficere ut amici iacentem
animum excitet inducatque in spem cogitationemque meliorem. Alius igitur finis verae amicitiae constituendus est, si prius,
quid maxime reprehendere Scipio solitus sit, dixero. Negabat ullam vocem inimiciorem amicitiae potuisse reperiri quam eius, qui
dixisset ita amare oportere, ut si aliquando esset osurus; nec vero se adduci posse, ut hoc, quem ad modum putaretur, a Biante
esse dictum crederet, qui sapiens habitus esset unus e septem; impuri cuiusdam aut ambitiosi aut omnia ad suam potentiam
revocantis esse sententiam. Quonam enim modo quisquam amicus esse poterit ei, cui se putabit inimicum esse posse? quin etiam
necesse erit cupere et optare, ut quam saepissime peccet amicus, quo plures det sibi tamquam ansas ad reprehendendum; rursum
autem recte factis commodisque amicorum necesse erit angi, dolere, invidere.
Versione tradotta
La terza
definizione dei limiti dell'amicizia, poi, è la peggiore di tutte, cioè che tanto uno sia stimato dagli amici, quanto egli
stimi se stesso. Spesso, infatti, in certuni vi è o un'anima troppo avvilita o una troppo fiacca speranza di migliorare la
propria sorte. E non è dunque proprio d'un amico essere tale verso un altro, quale egli è verso se stesso, ma piuttosto
sforzarsi e fare in modo di sollevare l'anima prostrata dell'amico e condurla a speranze e a pensieri migliori. Devo
dunque stabilire un altro termine per la vera amicizia; ma dopo che avrò detto che cosa specialmente solesse condannare
Scipione.
Diceva che mai s'era potuta trovare un'espressione più nemica all'amicizia. che quella di colui che
aveva detto così doversi amare come se un giorno si dovesse odiare. E soggiungeva che non poteva indursi a credere che questo,
comunque lo si stimasse, fosse stato detto da Biante il quale era stato ritenuto uno dei sette sapienti; che certo era il
pensiero di un uomo corrotto, o ambizioso, o che tirava tutto alla sua potenza. In che modo, infatti, uno potrà mai essere
amico a colui al quale penserà di poter essere nemico? E anzi bisognerà desiderare e bramare che l'amico sbagli il più
spesso possibile, perché ci dia più appigli, per così dire, a riprenderlo; e d'altra parte, invece, per le buone azioni e i
successi degli amici bisognerà angustiarsi, addolorarsi, provar invidia.
- Letteratura Latina
- De Amicitia di Cicerone
- Cicerone