Reges ex nobilitate, duces ex virtute sumunt. Nec regibus
infinita aut libera potestas, et duces exemplo potius quam imperio, si prompti, si conspicui, si ante aciem agant, admiratione
praesunt. Ceterum neque animadvertere neque vincire, ne verberare quidem nisi sacerdotibus permissum, non quasi in poenam nec
ducis iussu, sed velut deo imperante, quem adesse bellantibus credunt. Effigiesque et signa quaedam detracta lucis in proelium
ferunt; quodque praecipuum fortitudinis incitamentum est, non casus, nec fortuita conglobatio turmam aut cuneum facit, sed
familiae et propinquitates; et in proximo pignora, unde feminarum ululatus audiri, unde vagitus infantium. Hi cuique
sanctissimi testes, hi maximi laudatores. Ad matres, ad coniuges vulnera ferunt; nec illae numerare aut exigere plagas pavent,
cibosque et hortamina pugnantibus gestant.
Versione tradotta
Scelgono i re per
nobiltà di sangue, i comandanti in base al valore. I re non hanno potere illimitato o arbitrario e i comandanti contano per
l'esempio che danno, non perché comandano, facendosi ammirare, se sono coraggiosi, se si fanno vedere innanzi a tutti, se si
battono in prima fila. D'altronde, mettere a morte, imprigionare, sferzare è concesso solo ai sacerdoti e ciò non per
punizione o per ordine del comandante, ma come per imposizione del dio che credono presente fra i combattenti. Portano in
battaglia immagini di belve e simboli divini tratti dai boschi sacri, e - cosa che più d'ogni altra sprona al coraggio - la
formazione di uno squadrone di cavalleria o di un cuneo avviene non per casuale raggruppamento, ma in base alle famiglie e ai
clan; i loro cari stanno nei pressi, da dove possono udire le urla delle donne e i vagiti dei bambini. Questi i testimoni più
sacri; da loro la lode più ambita: presentano le ferite alle madri, alle mogli, che hanno l'animo di contarle e di
esaminarle; ed esse recano ai combattenti cibi ed esortazioni.
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