Quam ob rem uteretur eadem confessione T. Annius qua Ahala qua Nasica qua Opimius qua Marius qua nosmet ipsi; et si grata res publica esset laetaretur: si ingrata tamen in gravi fortuna conscientia sua niteretur. Sed huius benefici gratiam iudices fortuna populi Romani et vestra felicitas et di immortales sibi deberi putant. Nec vero quisquam aliter arbitrari potest nisi qui nullam vim esse ducit numenve divinum; quem neque imperi nostri magnitudo neque sol ille nec caeli signorumque motus nec vicissitudines rerum atque ordines movent neque (id quod maximum est) maiorum sapientia qui sacra qui caerimonias qui auspicia et ipsi sanctissime coluerunt et nobis suis posteris prodiderunt.
Versione tradotta
Di conseguenza T. Annio farebbe la stessa confessione di Ahala, di Nasica, di Opimio, di Mario e di noi stessi: e se lo Stato fosse riconoscente se ne rallegrerebbe, se si mostrasse ingrato, nell'avversa fortuna troverebbe comunque un sostegno nella propria coscienza. Ma la gratitudine per questa benefica uccisione, giudici, sono la Fortuna del popolo romano, la vostra buona stella e gli dèi immortali a ritenere di meritarsela; nessuno, d'altronde, potrebbe pensarla in maniera diversa, se non chi ritiene che non esistano potenza e volere divini, o chi rimane insensibile di fronte alla grandezza del nostro impero, di fronte al sole, alle costellazioni celesti, all'ordinato alternarsi di fenomeni naturali e, ciò che costituisce il colmo, alla saggezza dei nostri antenati, i quali da un lato hanno praticato i riti sacri, le cerimonie religiose e gli auspici, dall'altro li hanno trasmessi a noi, loro posteri.
- Letteratura Latina
- Pro Milone di Cicerone
- Cicerone