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Pensiero leopardiano.

Le tappe fondamentali del pensiero filosofico di Leopardi.

Pensiero filosofico leopardiano

Nell’Ottocento, il pensiero filosofico di Leopardi non poteva essere accettato dall’idealismo e dal positivismo, in quanto egli non era favorevole al progresso. Oggi, invece, si corre il rischio di esaltarlo come pensatore non sistematico e privo d’ideologia. Leopardi, infatti, manca di sistematicità nel suo metodo di indagine, poiché egli non pensa in quanto filosofo, ma come essere umano e sociale. Questi due criteri, il primo esistenziale e il secondo sociale, sono la rispondenza alle esigenze profonde dell’individuo e ai caratteri della condizione umana. Si evince da ciò il suo interesse per la storia intesa come modo di pensare e per le culture dei primitivi.

1817/18

La prima riflessione filosofica è sul tema dell’infelicità umana (illuminismo settecentesco). Essa non dipende dalla Natura che è considerata entità positiva, giacché produce generose illusioni che rendono l’uomo capace di virtù e grandezza. La civiltà, però ha distrutto le illusioni che proteggevano l’uomo e lo ha abbandonato ad un’infelicità consapevole ed insopportabile. Questa è la fase del Pessimismo storico. Leopardi, in essa, infatti, giudica l’Italia del suo tempo come un caso limite di allontanamento dalle illusioni antiche. Solo l’azione e l’eroismo sono i rimedi contro la decadenza dei moderni.

1819/23

Nella seconda fase, Leopardi si allontana dal cattolicesimo per abbracciare il sensismo illuministico (le idee dipendono dalle sensazioni ed il comportamento umano è orientato al procacciamento dell’utile). Egli approfondisce il suo punto di vista materialistico ispirato al meccanicismo settecentesco. Respinge quindi gli elementi spirituali e sostiene che il corpo è l’uomo che pensa, cioè il corpo è materia pensante. Questo sensismo porta alla causa dell’infelicità indicata nel rapporto tra il bisogno dell’uomo di essere felice e la possibilità di soddisfare tale bisogno. Nasce così la teoria del piacere: l’uomo aspira al piacere, ma una volta raggiunto, ne cerca un altro, perché non è mai soddisfatto di quello che ha conseguito. L’umanità, così, si trova in un circolo “vizioso”, provocato dalle illusioni prodotte dalla Natura, dal quale non può più uscire. La responsabilità dell’infelicità umana, dunque, ricade per intero sulla Natura che determina la tendenza umana al piacere non soddisfabile. Non è più, quindi, la condizione storica ad essere la causa dell’infelicità, ma la condizione esistenziale dell’uomo (Pessimismo cosmico). La vita è orientata solo per perpetuare l’esistenza senza che il piacere degli individui venga preso mai in considerazione. La civiltà ora non è intesa più negativamente ma ha anche un aspetto positivo, quello di aver svelato la Verità all’uomo che ha così recuperato, se non la felicità, la dignità della coscienza.

1823/27

Nella terza fase Leopardi scoprì, dopo alcune ricerche, che l’infelicità esisteva anche fra gli antichi. La sua riflessione raggiunse quindi l’atarassia, in altre parole una saggezza distaccata e scettica. Questo distacco era dovuto dal suo nuovo giudizio sulla civiltà, al quale era giunto grazie al contatto con l’ambiente liberale moderato dei cattolici fiorentini. In quest’ultima fase l’esigenza dell’impegno civile e la proposta di una nuova funzione intellettuale sono, per lui, i bisogni della civiltà. Infatti il suicidio costituisce un errore, perché provoca dolore ai superstiti; quindi, lo sforzo degli essere umani deve essere rivolto a soccorrersi scambievolmente (sentimento della fraternità sociale).  Gli uomini, così, consapevoli del male comune, la Natura, devono allearsi per ridurre il più possibile il loro dolore e accrescere la felicità consentita. Sta qui la democraticità del pensiero leopardiano.

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  • Giacomo Leopardi
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