Pessimismo cosmico - Studentville

Pessimismo cosmico

Parallelismo tra il pessimismo cosmico leopardiano e il pensiero filosofico di Schopenhauer.

Il pessimismo, inteso come concezione materialistica della vita e dell’uomo, accompagna, nel cammino della storia, gli artisti. Davanti al disagio di una vita "che non rende poi quel che promette allor" (Leopardi, A Silvia) l’uomo si abbandona all’arte, che diviene catarsi del male di vivere.

La filosofia di Schopenhauer sintetizza il disagio dell’uomo nell’universo e afferma la fragilità della sua condizione di caducità. Tutto il nostro conoscere é sottoposto per Schopenhauer al principio di ragion sufficiente che esprime il collegamento universale e necessario di tutti gli elementi della nostra esperienza sotto le forme a priori. A parte la forma più generale dell'essere-oggetto-per-un-soggetto, le nostre rappresentazioni sono tutte sempre sottoposte a tre forme a priori: spazio, tempo e causalità.

In ciò Schopenhauer si discosta da Kant, perché delle dodici categorie di questi, egli ritiene come operante solo quella di causalitá, mentre giudica tutte le altre come «finestre cieche", apposto solo per ragioni di simmetria architettonica. Anche nel concepire la funzione dell'intelletto e della ragione Schopenhauer si discosta da Kant.

L'intelletto è la facoltá che, applicando il principio di ragion sufficiente al materiale bruto della sensazione, ci fornisce l'intuizione immediata degli oggetti. Esso è proprio cosi dell'uomo come degli animali. La ragione è, invece, la facoltá che forma i concetti ristretti alle intuizioni. Essa è propria soltanto dell'uomo. Se i nostri concetti non corrispondono al contenuto concreto delle intuizioni, non si hanno più pensieri, ma solo parole. Per esempio:

«Sotto questo rispetto d nostro intelletto somiglia ad una banca di cambio, che, per essere solida, deve avere contanti in cassa, per poter in caso di bisogno scontare tutte le sue polizze presentatele: le intuizioni sono i contanti, i concetti le cedole… Se ora questa conoscenza intuitiva è assai scarsa; allora questa testa é fatta come una banca, i cui assegni superano dieci volte il fondo in contanti, per cui essa infinita bancarotta» (Da Il mondo ecc., 11, Laterza. 1930, pp. 88 e 97).

Schopenhauer condivide l’idealismo trascendentale di Kant: le correzioni apportate da Schopenhauer alla filosofia di Kant non intendono modificare – anzi vogliono confermare – la tesi centrale kantiana: l'idealismo trancendentale, mondo che noi ci rappresentiamo esteso nello spazio e nel tempo non ha esistenza che nel nostro intelletto. Tolto l'intelletto, sarebbe tolto anche il mondo. Per esempio:

«Se guardo un oggetto qualsiasi, diciamo un panorama, e poi penso che in questo momento mi venga tagliata la testa, so che l'Oggetto rimarrebbe fermo e irremovibile.. ma, in ultima analisi, ciò implica che anche io esisterei ancora. Ciò sarà chiaro a pochi, ma sia detto per questi pochi» (Da Parerga e Paralipomena, Boringhieri, 1963, p. 665).

Il mondo, dunque, è solo un fenomeno, dietro cui è da porre un essere in sé delle cose, che peró per l'intelletto è inattingibile. Con il velo di Maya, espressione, tratta dalla filosofla indiana, Schopenhauer designa il fenomeno o mondo della rappresentazione, inteso come realtà illusoria, paragonabile al sogno, di cui ha la stessa consistenza. Esso, che è una costruzione dell'intelletto, è un'apparenza, la quale ci nasconde la vera realtà, la cosa in sé. All'essenza intima delle cose non è possibile pervenire muovendo dall'esterno dei fenomeni, nemmeno di quel fenomeno che ciascuno è a se stesso, come oggetto tra gli oggetti.

Ma ciascuno di noi non è solo puro soggetto conoscente («alata testa d'angelo senza corpo». Di se stesso come corpo si puó avere una intuizione immediata, che si sottrae alle forme del principio di ragione e che ci rivela a noi stessi dall'interno nel nostro più intimo essere: come volontà di vita. La Volontà é libera, anzi essa è l'unica cosa che possa dirsi libera (gli esseri fenomenici non lo sono, perché sempre sottoposti alle leggi necessarie che governano la natura). Essa è libera di affermarmi o di negarmi. Dall'atto della sua affermazione è derivato il mondo presente. Di tutti i fenomeni, in cui la Volontá si manifesta, l'uomo è il più perfetto. Attraverso di lui la Volontà puó pervenire alla chiara ed esauriente cognizione di sé. A questo punto diventa possibile per la Volontà la scelta, se continuare ad affermarsi, perpetuando l'esistenza del mondo, oppure, se negarsi (convertendosi in Noluntas), ponendo fine al mondo stesso, Perché questa decisione avvenga, occorre che l'uomo si persuada che il male domina il mondo, che l'esistenza è inevitabilmente destinata al dolore, e che, precisa, l'affermazione della Volontá è stata un errore, al quale porre riparo. La visione pessimistica dell'esistenza empirica dipende dalla duplice maniera di conoscenza che ciascuno ha del proprio corpo , che offre la chiave per interpretare, per analogia, tutto l'insieme dei fenomeni come manifestazione visibile di un'unica Volontà sottostante. La Volontà si rivela con maggiore evidenza nell’amore sensuale.

Nonostante tutti i travestimenti che può assumere, esso resta la facoltà più seria a cui la Volontà si dedica ed il motore nascosto o palese.

In esso, meglio che altrove, si rivela altresì la soggezione a cui gli individui sono sottoposti, costretti a servire come strumenti a dei fini vanno al di là delle loro coscienti intenzioni.

Tra la conoscenza e la volontà vi è un rapporto: in origine e per natura la conoscenza é del tutto al servizio della volontà, non è che uno strumento diretto al soddisfacimento dei bisogni di questa. Anche nell'uomo l'elemento costitutivo, primario, é pur sempre la volontà, quale impulso inconscio, mentre la conoscenza è l'elemento aggiunto, secondario. Per esempio:

«Di quella segreta ed immediata potenza, che la volontà esercita sull'intelletto, un esempio meschino e ridicolo, ma impressionante, é questo, che noi nei conti ci sbagliamo piú spesso a nostro vantaggio che a nostro svantaggio, ed invero senza la minima intenzione disonesta, ma solo per l'inconsapevole tendenza ad impicciolire il nostro debito e ad accrescere il nostro credito». (Da Il mondo me, Il, cit., pp. 264-265).

Schopenhauer è consapevole di capovolgere «per la prima volta dopo millenni di filosofare» il punto di vista di tutti i filosofi precedenti, che hanno considerato come essenza dell'uomo l'essere pensante, e come derivato il suo essere volente.

Questa tesi fondamentale ha permesso di definire Schopenhauer il capostipite dell'irrazionalismo filosofico. Schopenhauer sostiene che l'esistenza è sempre e necessariamente dolore, e vuole darne una giustificazione metafisica.

Il suicidio non viene approvato perché esso non può aprire la strada alla cessazione del dolore. Il suicidio è la violenta soppressione del semplice fenomeno della volontà che lascia intatta quest'ultima. In effetti, il suicidio, lungi dall'essere, un atto di negazione della volontà, é un atto di affermazione della volontá di vivere.

La giustizia cosmica consiste in quell'ordine morale del mondo, che presiede ai rapporti reciproci tra tutti gli esseri ed infallibilmente assegna ad ogni colpa la pena che merita. I mali che il mondo contiene sono l'espiazione di quella colpa originaria, che la Volontà ha commesso scegliendo di affermarsi. E’ giusto che essa, attraverso le sue individuazioni, soffra le conseguenze che ne discendono; anche perché, passando attraverso di esse, la Volontà potrà giungere a ravvedersi. Perciò si può dire: "il mondo stesso è il giudizio universale". Schopenhauer esprime ammirazione per quella rappresentazione mitica della giustizia cosmica che è la credenza, di origine indiana della trasmigrazione delle anime, secondo la quale ciascuno raccoglie nella sua esistenza il frutto delle azioni compiute nell'esistenza precedente.

La storia per Schopenhauer è la successione secondo il tempo di una serie di fatti che variano secondo le circostanze, ma sono pur sempre azione fenomenica di una Volontà che, nella sua affermazione è sostanzialmente identica. Nella storia. perciò, non si produce nulla di realmente nuovo.

Quanto allo storicismo di tipo hegeliano, esso è un piatto realismo, che scambia il fenomeno per l'essere in sé del mondo, con l'aggiunta di uno sciocco ottimismo sulle «magnifiche sorti e progressive» dell'umanitá.

In verità, la storia tacerà sempre di ció che è la cosa più reale, importante: la conversione della volontà nell'interno di coloro che si sono volti "verso un'esistenza interamente divina, anzi opposta".

Schopenhauer è il filosofo nel quale è possibile rintracciare le più suggestive anticipazioni di Freud. Soprattutto nell'avere riconosciuto a fondamento della personalità dell'uomo l'elemento irrazionale, quale impulso cieco, mosso solo a procurare soddisfazione ai bisogni istintivi, quell'elemento che, nella terminologia adottata da Freud, prenderà il nome di Es. Insieme a ciò il dominio che la volontà inconscia esercita sulle motivazioni coscienti delle nostre azioni. Per cui un conto sono i motivi immaginari, che foggiamo consapevolmente, e un conto sono i motivi reali che ci spingono inconsapevolmente.

SCHOPENHAUER: «Per es. noi tralasciamo una cosa per ragioni puramente morali, come crediamo; ci accorgiamo però in seguito che solo il timore ci tratteneva, poiché la facciamo appena il pericolo è allontanato. In alcuni casi ciò va tanto oltre, che un uomo non immagina nemmeno il motivo della sua azione, anzi si ritiene incapace di esser mosso da uno di tal genere: eppure esso é il vero motivo della sua azione» (Da il mondo ecc., II, m., p. 254.

FREUD: «Mi sento incline a fare qualche cosa da cui mi riprometto un piacere, ma la tralascio con la motivazione: la mia coscienza non lo permette. oppure: mi son lasciato indurre dall'aspettativa di un grandissimo piacere a fare qualcosa contro cui la voce della coscienza protestava, e dopo l'azione la mia coscienza mi punisce con penosi rimproveri, mi fa sentire pentimento per l'azione stessa compiuta» (Da Intr. allo studio della psicoanalisi, Astrolabio, 1947, p. 387).

Entrambi non si fanno illusioni sulla natura dell'uomo, nel quale si nasconde una "bestia selvaggia", pronta a scatenarsi appena si presenti l’occasione.
Un tema quasi d’obbligo è quello del parallelo dei grandi pessimisti del XIX, che hanno tratto parimenti il dolore di vivere: il primo ad istituire un parallelo tra Schopenhauer e Leopardi è stato Francesco De Sanctis in un gustosissimo dialogo, intitolato ai due nomi, che rivela una conoscenza non superficiale del filosofo tedesco. Questi ne venne a conoscenza e se ne dichiarò molto soddisfatto. Sulla sofferenza universale concordano che tutti gli esseri dotati di sensibilità siano condannati alla sofferenza: non solo gli uomini, ma anche gli animali, anche le piante. Anche una foresta o un giardino, dove sembra regnare la pace e la tranquillità, sono un luogo di tormento.

SCHOPENHAUER: "No, nella foresta tranquilla, che sembra sognare in disparte, nella prateria che allieta lo sguardo del poeta, tutto é guerra intestina: sterminio implacabile, da albero ad albero, da filo d'erba a filo d'erba, da fiore a fiore… Osservate questa povera pianta secca e smorta" (colloqui, Rizzoli, 1982, pagg. 274-275).

LEOPARDI: «Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Si, pur quanto volete ridente. Sia nella pia mite stagione dell'anno, Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate dei patimento. Tutta quella famiglia di vegetali é in istato di sofferenze ' qual individuo più, qual meno. La quella rosa é offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è chiaro crudelmente da un'ape, nelle sue parti pio sensibili, più vitali punto» (Da Zibaldone, 11, Mondadori, 1945, p. 1005).

Leopardi e Schopenhauer sulla noia concordano che i mali derivanti dai bisogni o dalle cure particolari hanno tregua, subito subentra la noia, che di per sé è sentimento di infelicità.

SCHOPENHAUER: ":… non appena miseria e dolore concedono all'uomo una tregua, la noia e subito vicino tanto, che quegli per necessità ha bisogno d'un passatempo… E la noia é tutt'altro che un male di poco conto: che finisce con l'imprimere vera disperazione sul volto" (Da li mondo ecc., 1, cit., pp. 389-390).

LEOPARDI: «Quando l'uomo non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale l'infelicità nativa dell'uomo, e questo é quel sentimento che si chiama noia» (Da Zibaldone, II, cit., p. 1306).

Naturalmente consideremo solo il pessimismo cosmico di Leopardi: se in seguito alla crisi del 1819 il Leopardi aveva messo a punto, non senza ambivalenze, una concezione antinomica di natura e ragione (Rousseau), nel corso degli anni successivi progressivamente egli la mette in discussione, per approdare a quello che è stato definito con fortunata formula il suo pessimisino cosmico e che costituisce l'assetto all'incirca definitivo del suo pensiero. L'acquisizione è lenta e progressiva, non frutto di un'improvvisa illuminazione: se ne hanno tracce in numerosi pensieri dello Zibaldone, prima che trovi una più organica definizione in alcune Operette morali e soprattutto nel Dialogo della Natura e di un Irlandese. In sostanza egli passa da una concezione positiva ad una radicalmente negativa del pensiero rousseauniano : non esiste più uno stato felice di natura (da cui l'uomo si sarebbe allontanato). L’uomo è soggetto ad una natura matrigna, che non è che l’immagine dell'intero universo come un ciclo di produzione-distruzione di materia, delll'assenza di qualsivoglia disegno provvidenziale. La ragione, considerata nel pessimismo storico, la causa dell’infelicità, avendo allontanato l’uomo dalla natura, ora è efficace strumento conoscitivo, in grado di svelare le contraddizione del reale.

Ciò comporta la critica ai dogmi del cristianesimo, sulla felicità . «La felicità che l'umano naturalmente desidera è una felicità temporale, una felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di questa vita e di questa esistenza … »,(Zibaldone), concetto questo che determina l'insufficienza della stessa illusione in una vita ultraterrena, rispetto ad altre più potenti illusioni), sulla materia pensante. L'approdo a Operette Morali, come il Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggero e il Dialogo di Tristano e di un Amico.

Soprattutto in La Ginestra, vera e propria summa e vertice della meditazione e della poesia dell'ultimo Leopardi( Binni), il Leopardi diviene apostolo di verità: è il titano e il nuovo Promoteo contro la natura. Sotto l'incombente, minacciosa mole del Vesuvio, nella desolazione di una pendice sterile dalla lava, cresce la ginestra " contenta dei deserti". La ginestra è l’esempio di coraggio: anche se il vulcano la travolgerà essa rimarrà sotto, come atto di titanismo. Leopardi si oppone al secolo sciocco e vile, che mette al centro l’uomo, quando esso è infinitamente piccolo e fragile nell’universo. Il Leopardi qui sposa l’idea utilitaristica e solidaristica del poeta: solo solidariezzandosi e confederandosi contro il nemico comune la natura e combattendo le "superbe fole" l’uomo potrebbe vivere una convivenza civile più salda e duratura. La Ginestra completa la critica al cristianesimo e definisce il nucleo vitale e antiascetico dell'etica leopardiana : «Se il poeta insiste sulla necessità di riconoscere spregiudicatamente la ostile crudeltà della natura e la radicale infelicità della condizione umana, se arriva a desiderare la morte, ciò non esclude, anzi presuppone proprio la ferma persuasione del diritto dell'uomo, di ogni uomo, a vivere la sua vita, a non patire e a godere quella felicità terrena che gli spetta, e quindi la ferma convinzione del dovere rinunziare ad esperire fino in fondo le possibilità di esercitare tale diritto». L'arido e disperato pessimismo leopardiano può darci dunque alla fine della sua vicenda il messaggio di umana fratellanza.

Anche Lucrezio nel De Rerum Natura dall'alto della sua solitudine e della sua collera terribile appare soggiogato e affascinato dall'onnipotenza della natura. Lucrezio esalta la sua crudeltà e attacca la stolta superbia degli uomini che pretendono di essere il centro dell'universo, mentre non sono che vermi. Lucrezio evidenzia il materialismo, per esempio:

Haud igitur penitus pereunt quaecumque videntur

Quando alid ex alio refecit natura nec ullam

Rem gigni patitur nisi morte adiuta aliena.

(Qualsiasi cosa che si veda perisce, dal momento che la natura dall’una cosa un’altra ne ricrea ne nessuna cosa si trasforma se con l’aiuto della morte di un’altra)

Fa polemica, contro gli ottimisti laudatori del genere umano, conclusioni simili alla Ginestra leopardiana: si parla del fanciullo che vive in un orizzonte doloroso, delle fatiche del parto e del vagito del bimbo che sono i primi segni delle sofferenze. La natura è matrigna e coinvolge tutto nel suo ciclo vitale. L’uomo sembra nascere con una colpa ignota, con un marchio ineliminabile di mediocriotá e di dolore. Lucrezio così vive uno scoramento profondo e un cupo travaglio interiore. Anche se apparentemente legato al sistema epoicureo, che designava la paura della morte e degli dei causa dell’infelicità umana, Lucrezio rispetto a Leopardi e a Schopenhauer non ha un sistema filosofico che controlli la sua intima irrazionalità. Al posto dell’atarassia vive il brivido per la vanità delle cose umane.

Il titanismo prometeico, che Leopardi e Schopenhauer, hanno promosso, presentando l'individuo in Iotta contro la società ingiusta e contro la stessa divinità, è ripreso in musica da Bethoveen con intensità senza pari. Le sue innovazioni si potrebbero compendiare, in fondo, nell'intensificazione dell’espressione, sotto tutte le forme, con tutti i mezzi a disposizione del musicista, dalla moltiplicazione degli strumenti in orchestra alla moltiplicazione delle difficoltà tecniche nell'impiego degli strumenti solisiti, con conseguente arricchimento di effetti, dall'addensarsi di indicazioni espressive sempre piú particolareggiate alla libertà del ritmo melodico, reso straordinariamente incisivo, dall'approfondimento dell'armonia alla tensione drammatica impressa allo schema formale della sonata. Come in un rito, il divenire dei due temi, il loro sviluppo e la finale riduzione all'unità tonale celebrano ogni volta una lotta tra due principi opposti: e questa concezione drammaticamente agonistica diventa la forma sonora per eccellenza di quel titanismo eroico ond'è nutrita l'anima beethoveviano. Il contrasto fra i due temi si fa sempre più marcato: il primo generalmente robusto, cade, piuttosto ritmico che melodico, affidato ai gradi fondamentali della tonalità, il secondo piú melodioso e piano, affettuoso, si nuosamente flessibile. Ma nello stesso tempo che si accentua l'opposizione dei due temi, viene pure stretta la segreta affinità melodica. In Beethoven c’è la lotta di due principi opposti, in o violento contrasto di luce e d'ombra, piuttosto che diffondersi in un anelito di Iuminosità com'era stato il caso per Mozart. I due elementi fondamentali dell'arte beethoveniana sono il dolore della vita, risentito da un animo che si fa eco dell'intera umanità, e l'energia nella disperata risoluzione di affrontarlo. Nella seconda Sinfonia, chiaro di luna c’è una tragica e glaciale desolazione che assomiglia Alla luna di le di Leopardi e un impeto d’eroismo tempestoso. Bethoveen prende su di sé i mali del mondo, le miserie dell'umanità; egli è l'apostolo battagliero della giustizia, è il grande eroe che in sé accoglie l'amore del prossimo e si fa guida all'uorno verso un ideale di bene e di libertà, di dignità umana duramente conquistata. La marcia funebre che costituisce il secondo tempo è come un'immensa voce di lamento, il corale rimpianto dell’umanità sulla spoglia di chi ne incarnava i piú nobili aspetti e ne difendeva i diritti a viso aperto,

La lotta contro le potenze avverse del destino, verso la fine della vita è superata con l recupero della fede: ogni residuo d'autobiografismo interiore, nell'animo di Beethoven – pur nello squallore sempre piú tetro della vita, nella solitudine inesorabile cui la crescente sordità lo condannava – ascende alla contemplazione di supreme verità d'ordine religioso. Era prima di tutto la Natura che gli rivelava il suo segreto. La Sinfonia pastorale, op. 68 in fa maggiore (1805), parte da un semplice sentimento e di ristoro, di ricreazione del cittadino che s'abbandona alle delizie della campagna, e perviene ad afferrare il senso del divino che nella natura vive, secondo un afflato di panteismo.
Il provincialismo di certe esperienze e educazioni porta l’uomo a chiudersi in sé riflettendo sulla posizione dell’uomo nell’universo. Come Leopardi viene da una zona non culturalmente centrale, così Goya viene da una nazione reazionaria e passatista.Goya è il piú grande interprete del sentimento popolare spagnolo in tutti i suoi molteplici aspetti. Nella sua lunga vita, passa dall'apparente serenità del Settecento all'invasione napoleonica e alla restaurazione monarchica. Sente profondamente il dramma della sua poca e lo esprime con immediatezza, sia attraverso la rappresentazione angosciosa del proprio io». sia attraverso la documentazione delle tragedie della guerra, volendo «perpetuare con il pennello le gesta piú importanti ed eroiche ( … ] contro il tiranno dell’Europa> – data la grande attenzione che porto A le glorie della mia patria». Basti citare un esempio: Le fucilazioni del 3 maggio. Nel buio della notte, davanti a un colle arido, il plotone (l'esecuzione sta giustiziando un gruppo di patrioti). I soldati, controluce e di spalle, tutti simili fra loro nella divisa e nella posa, non appaiono uomini singoli con sentimenti individuali, ma un'unica macchina priva d'anima e di volontà propria, ciechi strumenti di morte, al servizio di un potere estraneo anche a loro. La grande lanterna posata in terra proietta invece la sua luce chiara sul gruppo (condannati, fra i quali emerge quello al centro, inginocchiato, le braccia allargate in un gesto disperato, gli occhi sbarrati, individuato dalle note squillanti della camicia bianca e dei pantaloni gialli. In primo piano, dei cadaveri, è un uomo caduto bocconi, immerso in un lago di sangue, il viso, deformato dalle orrende ferite.

Quella che interessa noi è essenzialmente il senso tragico del secondo periodo, le cui opere sono al Prado di Madrid. Goya impazzisce, poiché viene tormentato anche da ossessioni che gli si affermano nella mente. Dipinse tra il 1819 e il 23 le pareti di una sua casa di campagna, casa del Sordo (era diventato sordo). Nascono così opere in cui il verismo nell'uso della luce serve ad evocare il momento drammatico, un groviglio continuo di fantastico, reale, grottesco : sono visioni allucinate. di prevalente tonalità scura (sicchè sono anche dette pitture nere ), estrinsecazione di un urgenza incalzante di angoscia ormai divenuta cosmica.
Delle scene più terribili, Saturno che divora uno dei suoi figli evidenzia che il pittore spagnolo è stato vinto dal dolore, allontanandosi dal reale.

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