Plauto e le Commedie: trame e personaggi

La Commedia di Plauto

La Commedia di Plauto

Plauto è con Terenzio il più importante commediografo della letteratura latina, la cui influenza è arrivata fino al teatro più recente (Machiavelli, Shakespeare, Ben Johnson, Molière, Giraudoux, fra gli altri). Plauto si ispira ai modelli greci, ma rivela autonomia, operando una sintesi geniale e originale con elementi presi dalla vita quotidiana romana e dalla tradizionale farsa italica. È il primo scrittore dell’età arcaica di cui sono pervenute opere complete.

Plauto: il nome

I tria nomina Tito Maccio Plauto (prenome, nome gentilizio, cognome) riportati dai codici non sembrano essere autentici ma falsati dai grammatici antichi. In alcune commedie (Asinaria, Mercator) troviamo sia Plautus sia Maccus sia Maccus Titus. Si è dunque supposto che il poeta abbia utilizzato diversi nomi (o pseudonimi) a seconda dei casi variandoli spesso durante gli anni della sua produzione letteraria: il nome Maccus (maschera del ghiottone stolto)deriverebbe dalla sua precedente attività di attore nell’Atellana, antica forma teatrale, mentre Plautus potrebbe essere un soprannome che significa “dalle orecchie lunghe” o “dai piedi piatti”. L’ipotesi che sia stato un a ttore in base all’analisi dei nomi lascia tuttavia perplessi e non è certamente confermata per quanto riguarda le sue commedie dato che abbiamo notizie sugli attori che le misero in scena (per es. il primo attore dello Stichus fu Pallione).

La vita di Plauto

Plauto è il primo commediografo latino di cui ci sono giunte opere intere però le sue notizie biografiche sono scarse e non sempre attendibili. Infatti sono ben pochi i dati che possiamo considerare con una certa sicurezza:

– Nacque a Sarsina, città umbra, sicuramente prima del 250 a.C. visto che Cicerone nel Cato Maior discorrendo sull’operosità dei vecchi racconta che Plauto compose lo Pseudolos – rappresentato nel 191 a.C.- anno in cui egli doveva aver superato i 60 anni per poter essere ritenuto vecchio e quindi compreso nell’elenco che fa Cicerone.

– Sempre grazie alla testimonianza di Cicerone ma stavolta nel Brutus sappiamo che morì nel 184 a.C.

– Gli anni in cui mise in scena le sue opere sono quelli relativi alla seconda guerra punica(218-201a.C.).

La Commedie Varroniane

Secondo le testimonianze di Aulo Gellio e San Girolamo (la cui fonte è Varrone), peraltro meno credibili, sembrerebbe che Plauto, ancora giovane, giunse a Roma e, al servizio di una compagnia teatrale ,imparò il greco e il mestiere di commediografo. Poi si diede al commercio del grano ma in seguito ad un fallimento perse tutta la sua fortuna e dopo aver trascorso alcuni anni in prigione per i debiti accumulati si ridusse a girare la macina presso un mulino. Pare che proprio questa esperienza gli ispirò la stesura di tre commedie: Saturio (il panciapiena), Addictus (lo schiavo per debiti) e un’altra di cui non sappiamo il titolo, che furono l’inizio di una fruttuosa attività teatrale.

Delle 130 commedie che dopo la mote portavano il suo nome Varrone fece una tripartizione divenuta poi canonica: 21 autentiche giunte a noi integre tranne l’ultima ridotta a pochi frammenti (Vidularia); 19 dubbie di cui leggiamo solo i titoli (ma che lo studioso riteneva autentiche);90 spurie, andate completamente perdute. Esaminiamo le autentiche:

  •  Anphitru (Anfitrione): Sosia fugge dalla spedizione contro i Teleboi e s’ imbatte in Mercurio che ha preso le sue sembianze. Inizialmente è sconvolto dalla vista di un uomo così simile a lui e dalla perdita della propria identità, ma poi, visto che lo sconosciuto continua ad affermare di essere Sosia e lo minaccia di non dire il contrario, egli si ritiene da quel momento libero. Dopo una lunga notte durata sei mesi per volere di Zeus, che, prese le sembianze di Anfitrione voleva stare con la moglie di lui, Alcmena, Zeus, saluta la moglie dicendole di essersene andato di nascosto dal campo di battaglia per stare con lei e di dover al più presto far ritorno.
    Intanto Sosia richiama Anfitrione in patria per aiutarlo a risolvere il mistero della la notte. Alcmena è sorpresa di vederlo perché lo crede appena partito, e quando gli racconta cosa era avvenuto la sera prima, Anfitrione l’accusa di averlo tradito, e si allontano per cercare Naucrate, che testimoni che lui il giorno prima non aveva ancora fatto ritorno a casa.
    Zeus, sotto le sembianze di Anfitrione, decide di chiedere scusa ad Alcmena, ed invia Sosia a cercare pilota Blefarone per invitarlo a cena.
    Nel frattempo Anfitrione torna a casa, e non viene fatto entrare da Mercurio che finge di non riconoscerlo. Accorre Alcmena, su cui Anfitrione sfoga le proprie ire, facendola tornare sdegnata in casa. Anfitrione vaga così per tutta la città cercando Naucrate, e s’imbatte in Blefarone e in Sosia, contro cui inveisce per gli insulti che gli erano stati rivolti da Mercurio.
    I due Anfitrione si trovano faccia a faccia, si accusano reciprocamente di adulterio e vengono alle mani. Blefarone, chiamato a decretare chi sia il vero Anfitrione, sbaglia.
    Alcmena poi partorisce, mentre tuoni e fulmini circondano la casa. Due serpenti piovono dal cielo, ma uno dei due bambini li strozza. Intanto si ode rimbombare dal cielo la voce di Zeus, che rivela di essere padre del bimbo che ha strozzato i serpenti.
    Anfitrione e la serva Bromia vorrebbero consultare l’ indovino Tiresia, ma Zeus stesso dice che non è necessario, e che Alcmena non è da incolpare di adulterio.
  • Asinaria (commedia degli asini): Un giovane innamorato di una cortigiana riesce con la complicità dei servi e di suo padre a riscattarla con i soldi ricavati dalla vendita di un branco di asini. Ma il padre non tarda a mostrare interesse per la giovane della quale vorrebbe approfittare. Ma il suo piano viene scoperto e il vecchio subisce un bella punizione dalla moglie.
  • Aulularia (commedia della pentola): Il vecchio avaro Euclione ha trovato sotterrata in casa sua una pentola con un tesoro. Sotterratala di nuovo veglia morbosamente su di essa: sospetta che chiunque gliela possa rubare, compresa la vecchia serva Stafila, ma in realtà tutti lo credono molto povero, e nessuno sospetterebbe la sua ricchezza.
    Il vecchio vicino di casa Megadoro, spinto dalla sorella Eunomia decide di sposarsi per avere un erede: egli chiede la mano di Fedria, figlia di Euclione, e con grande piacere del padre di lei, è disposto a prenderla senza dote.
    Strobilo, servo di Megadoro, su ordine del padrone porta la spesa, i cuochi e le suonatrici di flauto affittati al Foro, ad Euclione. Questi, nel frattempo, tornato dal mercato, dove aveva acquistato solo incenso e corone di fiori in onere del Lare familiare, perché tutto il resto gli era apparso troppo caro, trova un gran trambusto in casa sua, e udendo i cuochi parlare di una grossa pentola, è terrorizzato. Così caccia via i cuochi e permette loro di rientrare solo dopo aver dissotterrato la pentola e averla presa con sé per poi sotterrarla nuovamente.
    Strobilo, servo di Liconide, si reca a casa di Euclione su ordine del padrone, per osservare la situazione e tenerlo al corrente degli avvenimenti. Egli vede così Euclione che sotterra la pentola ed entra nel tempio per rubarla ma viene sorpreso dal vecchio che lo caccia via. Il servo però continua ad osservarlo e scopre dove egli si appresta a nasconderla: un bosco al di là delle mura.
    A casa di Megadoro, Fedria partorisce il figlio di Liconide, nipote di Megadoro, che l’aveva violentata mentre era ubriaco. Liconide decide di confessarlo ad Euclione, ma nel frattempo il vecchio ha scoperto il furto della pentola e travisa le parole del giovane pensando che confessi proprio il furto. Strobilo, però, confessa tutto al padrone che gliela fa restituire. Liconide ottiene così la mano di Fedria.
  • Bacchides (Bacchidi): commedia ispirata a Menandro. Le protagoniste sono due sorelle cortigiane che provocano discordie tra due amici,Pistoclero e Mnesiloco,di cui sono le amanti,e iloro padri. Anima degli intrighi è il servo Crisalo. Nella scena finale padri figli e Bacchidi si riconciliano e fanno baldoria a casa di queste ultime.
  • Captivi (prigionieri): Il ricco Egione ha due figli: Filopolemo, fatto prigioniero in guerra e Tindaro rapito ancora bambino da uno schiavo e venduto al padre di Filocrate. Per riavere Filopolemo, Egione compra come prigioniero di guerra proprio Filocrate con lo schiavo Tindaro, che rimane ostaggio da Egione mentre Filocrate libera Filopolemo e lo riconduce dal padre. A questo punto viene rintracciato lo schiavo che aveva rapito Tindaro che può finalmente ricongiungersi con il padre ed il fratello. Commedia priva di intreccio amoroso, cosa peraltro rara in Plauto, con una impostazione moraleggiante ove il filo conduttore è l’amore paterno.
  •  Casina (Casina): la commedia prende il nome dalla protagonista, la fanciulla del caso, che non compare mai in scena, contesa tra padre e figlio ma assegnata al padre secondo il sorteggio. Il vecchio tenta di farla sposare con il suo fattore che poi dovrebbe mettergliela a disposizione, ma la moglie, scoperto il loro piano, organizza una messa sostituendo alla fanciulla lo schiavo Calino, così il vecchio rimane beffato e la ragazza è libera di sposare il giovane. Da questa commedia Macchiavelli trarrà ispirazione per la sua Clizia.
  • Cistellaria (la commedia della cestella): una giovane cresciuta da una cortigiana rischia di fare la sua stessa vita ma viene riconosciuta libera grazie ai ninnoli lasciati quando da neonata era stata esposta e conservati in una cestella. Può così sposare il giovane innamorato di lei al quale il padre voleva far sposare un’altra.
  • Curculio (il gorgoglione): la commedia prende il titolo dal nome del parassita che per mezzo di un intrigo procura al giovane Fedromo il denaro per riscattare la ragazza che ama dal lenone che la possiede e dal soldato Terapontigono a cui è promessa e che si scoprirà essere invece suo fratello.
  • Epidicus (Epidico): commedia di notevole intrigo il cui dispiegarsi e condotto dallo schiavo Epidico ai danni del padrone Perifane per avere i soldi necessari al figlio del padrone intenzionato a comprare due cortigiane di cui è innamorato. Alla fine quando Epidico sta per essere smascherato, si scopre che una delle due ragazze è figlia di Perifane. Allora Epidico ottiene in dono la libertà.
  •  Menaechmi (Manecmi): La scena si svolge a Epidamno dove uno di due gemelli è alla ricerca del fratello da cui è stato separato da bambino. I due oltre che somigliarsi in maniera incredibile portano lo stesso nome, Menecmo per l’appunto. Non lo trova subito ma viene scambiato per lui dal parassita, dal cuoco, dall’amante Erozio e dalla gelosissima moglie. Continua la serie di equivoci che termina solo quando i due si incontrano e chiarita la vicenda decidono di tornare a Siracusa dove erano nati. A questa commedia si ispirò Shakespeare (la commedia degli errori).
  •  Mercator (il mercante): padre e figlio rivali in amore per una cortigiana comprata dal giovane durante un viaggio. Il padre chiede aiuto ad un amico che finge di volere per se la ragazza ma la moglie dell’amico, scoperto l’inganno, mette in ridicolo il vecchio facendo si che la ragazza torni con il giovane.
  • Miles Gloriosus (il soldato fanfarone): Pirgopolinice ha rapito ad Atene la cortigiana Filocomasio e l’ha condotta ad Efeso. Qui la vede il servo di Pleusicle, amante della donna che informa subito il suo padrone. Questo giunto ad Efeso alloggia a casa del vecchio e astuto Periplecomeno, proprio a fianco a quella di Pirgopolinice. Il vecchio e il servo attuano un piano: fanno un buco nel muro divisorio e con la trovata di una sorella gemella permettono ai due amanti di vedersi. Pirgopolinice all’idea di avere una storia con la moglie (inesistente) di Periplecomeno lascia libera Filocomasio e viene anche malmenato dal finto marito geloso.
  •  Mostellaria (la commedia degli spiriti): Il sevo Tranione impedisce al suo padrone, appena tornato da Atene, di entrare in casa dove il figlio Filolachete e il suo amico Callidamante si stanno intrattenendo con le loro amanti, adducendo come motivo la presenza in casa di un fantasma. Poi spunta un usuraio che chiede i soldi prestati a Filolachete, ma il servo convince il padrone che quel denaro è stato speso per l’acquisto di una nuova casa. Due servi di Callidamante svelano involontariamente l’inganno ma la commedia si conclude felicemente con il perdono di figlio e servo.
  • Persa (il persiano): un giovane sottrae la propria amata da un lenone grazie ad un amico che travestitosi da persiano vende al lenone la figlia di un parassita che complice dei due si finge schiava.
  •  Poenulus (il piccolo cartaginese): un giovane cartaginese rapito da fanciullo e venduto ad un vecchio si innamora di una giovane sfruttata insieme alla sorella dal lenone Lico. Mentre organizza un piano con il suo servo arriva Annone per cercare le figlie che gli erano state rapite. Prima riconosce nel giovane suo nipote e nelle due cortigiane le sue figlie. Lico viene punito e il giovane può sposare la sua amata cugina. Importante dal punto di vista linguistico per la presenza di brani in punico.
  • Pseudolus (il bugiardo): Calidoro è innamorato della cortigiana Fenicia, e per comprarla al suo lenone Ballione che l’ha messa in vendita ha bisogno di mine d’argento. Il lenone però, dopo averla promessa a Calidoro, la vende ad un soldato macedone, Polimacheroplagide, che gli versa 15 mine come anticipo. Lo schiavo Pseudolo vuole aiutare il suo padroncino a trovare i soldi necessari, e non nasconde il suo intento neanche al padre di lui, Simone, con cui anzi scommette che riuscirà ad ottenerli da lui: se vi riuscirà, vincerà 20 mine d’argento e verrà affrancato. Simone mette in guardia Ballione, dicendo che l’astuto Pseudolo trama contro di lui. Un giorno Pseudolo, davanti a casa di Ballione, s’imbatte in Arpace, attendente del militare macedone, che porta al lenone le 5 mine, e si spaccia per Siro, un servo del lenone, senza però riuscire a farsi dare i soldi. Arpace dice però dove alloggia, e gli chiede di avvertirlo quando il suo padrone sarà tornato.
    Pseudolo ottiene poi l’aiuto di Carino, amico di Calidoro, che gli affida il suo servo Scimmia perché reciti la parte di Arpace, e gli presta 5 mine d’argento. Pseudolo conduce Scimmia da Ballione, che gli affida Fenicia.
    Dopo di che, Ballione dice a Simone di essere molto sollevato perché Fenicia finalmente è stata venduta, e all’amico, incredulo, promette 20 mine se Pseudolo riuscirà a consegnare la ragazza a suo figlio. Giunge in quel momento Arpace, e Ballione e Simone pensano che lui sia un uomo mandato da Pseudolo. Alla fine l’inganno si svela, e Simone dà le 20 mine a Pseudolo.
  •  Rudens (la gomena): una giovane caduta nella trappola di un lenone si salva con una schiava dal naufragio della nave che la portava in Sicilia. Prima trova rifugio nel tempio di Venere poi a casa del vecchio Demone. Intanto il giovane Plesidippo, innamorato di lei ne rivendica il possesso avendo già pagato parte del riscatto. Grazie ad un bauletto rinvenuto in mare e dai ninnoli contenuti risulta che la giovane è figlia di Demone, rapitagli dai pirati, e quindi si può procedere alle sue nozze con Plesidippo.
  • Stichus (nome del servo): Panegiri e Panfila, due giovani sorelle sposate da poco tempo, nonostante l’insistenza del padre non intendono divorziare dai loro mariti, lontani da casa per tentare la fortuna nel commercio. L’attesa, lunga più di tre anni, viene premiata perché i mariti tornano arricchiti e si riconciliano persino con il suocero. La commedia si conclude con un festoso banchetto organizzato dal servo Stico.
  •  Trinumnus (le tre monete): Lesbonico durante l’assenza del padre Carmide per pagare i debiti vende la casa che viene comprata da Callicle, amico del padre, preoccupato di custodire il tesoro che vi è nascosto. Di questo tesoro si serve per la dote di una figlia di Carmide facendo però credere che i soldi sono arrivati dal padre tramite un servo. Alla finzione si presta un finto messo in cambio di tre monete. Il ritorno di Carmide chiarisce la vicenda permettendo il matrimonio di entrambi i figli.
  • Truculentu (lo zoticone): la cortigiana Fronesio vive tre storie con tre diversi amanti. Fa credere ad uno di loro di aver avuto un figlio da lui ma l’inganno viene scoperto e uno degli altri due amanti sposerà la vera madre del bambino che aveva precedentemente sedotta.

I Personaggi delle commedie

I personaggi plautini non sono singoli individui ma maschere fisse, già note al loro pubblico.
I “tipi” principali sono:

  •  L'”adulescens”: giovane innamorato incapace di affrontare i propri problemi, il cui linguaggio spesso arriva a toni alti e patetici con i quali l’autore cerca di ridicolizzare il personaggio. Egli è contrastato dal padre, il “senex”, poiché talvolta desiderano la stessa donna o a causa della dipendenza economica del figlio dal padre.
  • Il “senex” : vecchio padre severo e beffato che ora nega un aiuto economico al figlio, ora cerca di conquistare la donna scelta da quest’ultimo, divenendone avversario.
  • La “meretrix”: in quanto personaggio femminile, ricopre un ruolo marginale tanto da non apparire affatto sulla scena in alcune commedie. Tale personaggio, sconosciuto a Roma, era invece consueta nel mondo greco. Rappresenta la cortigiana, libera o schiava e, in quest’ultimo caso, desiderosa di essere riscattata dall’amante per passare alla condizione di sposa.
  • La “matrona”: madre dell’adulescens e sposa del senex. La sua figura è in contrasto a quella dell’etera. Il suo carattere si distingue per autoritarismo e dispotismo, capace di scatenare ire furibonde delle quali ne è vittima il marito.
  • Il “parassitus” : è probabilmente uno dei personaggi più buffi. Vive sfruttando insaziabilmente i beni economici altrui e portando rovina ai suoi benefattori che si trovano, però, almeno ricambiati dalle sue lodi, magari esagerate. Le sue battute sono chiaramente fonte di comicità.
  • Il “miles gloriosus”: soldato fanfarone al servizio di chi lo paga meglio. La sua definizione può essere “conquistatore immaginario”, vanta infatti successi in campo di guerra e in campo amoroso mai avvenuti e prontamente smascherati nel corso della commedia. Anche la sua figura non era nota in Roma, forse perché qui il servizio militare era dovere di ogni cittadino, ed è probabile quindi che i romani si sentissero, per contrasto, orgogliosi del proprio valore militare, a differenza di quello ellenistico.
  •  Il “leno” : un’altra figura sconosciuta presso i romani è il commerciante di schiave e lo sfruttatore, ossia il lenone. Il suo personaggio è quello maggiormente negativo, inoltre costituisce solitamente un ostacolo alla realizzazione dei desideri dell'”adulescens” . egli è comunque destinato alla sconfitta, come lo sono di norma l’avidità e l’odiosità nel teatro plautino. Quello che più colpisce, comunque, della sua figura è la capacità d’essere superiore ad ogni tipo di giudizio morale che gli venga attribuito.
  • Il “servus”: il servo costituisce il motore della vicenda. Il suo carattere è sfrontato ed astuto ed è dotato di grande intelligenza e vitalità, grazie alle quali egli riesce sempre ad affrontare qualsiasi situazione. E’ grazie alla sua presenza che la storia trova un inizio ed una conclusione. Probabilmente è il personaggio maggiormente caratterizzato: è consapevole dell’ottima strategia delle proprie mosse tanto da farlo esplicitamente capire al pubblico (tecnica metateatrale) ed è con queste che risponde alle minacce del padrone. Il ritratto fisico che ce ne dà l’autore si rifà alle personali caratteristiche di Plauto stesso: capelli rossi, testa grossa, pelle molto scura, occhi vivaci, viso rubicondo e fisico piuttosto tarchiato. Tale deformità fisica sembra quasi una sfida al destino all’interno di un universo nel quale ogni ordine sociale viene sovvertito per lasciare trionfare i servi e i figli a dispetto dei padroni e dei padri.

I personaggi minori in Plauto

A fianco dei personaggi principali della commedia plautina recitano altri personaggi che rivestono ruoli di minore importanza, come per esempio:

La “lena”: è la “ruffiana”, e, da come si intuisce nel nome, una sorta di doppio femminile del “leno”. E’ per lo più rappresentata da una vecchia, curante unicamente del proprio interesse e quasi mai sincera nei suoi rapporti personali.
L'”ancilla”: è, appunto, l’ancella, la servetta al seguito della “meretrix” o della “matrona”. L’ancella è molte volte coinvolta negli affari delle sue padrone, essendone, magari, perfino complice.
Il “cocus”: la sua presenza è, naturalmente, d’obbligo in presenza di banchetti, per i quali viene sempre ingaggiato. Talvolta il suo ruolo assume importanza più rilevante nel caso in cui questo prenda parte agli affari del proprio padrone.
Il “puer”: egli è un ragazzo molto giovane impiegato come “schiavetto”. Nelle commedie di Plauto se ne trovano molti ma spesso la loro presenza non comporta sostanziali benefici o impedimenti all’economia della commedia.
Il “fenerator”: egli recita un ruolo negativo, quello dell’usuraio, sempre pronto ad entrare in scena nei momenti meno opportuni ed esclusivamente per i propri interessi, sempre materiali, come appunto il denaro: l’usuraio lo presta a chi lo richiede, come del resto prevede la sua professione, molte volte per riscattare una cortigiana.

Plauto e il rapporto con i modelli greci

Le commedie di Plauto sono palliate, ambientate quindi in Grecia e recitate in costume greco. Gli intrecci sono quelli caratteristici della commedia nuova attica, che si caratterizzava per il passaggio dalle tematiche sociali alle problematiche dell’individuo. A questi modelli Plauto attinge, servendosi anche della tecnica della contaminatio; tale fusione di parti di testi analoghi in una sola è però molto libera, perché serve per vivacizzare l’azione e ottenere l’applauso del pubblico. Sicuramente si è ispirato a Menandro (342-291 a.C.), a Difilo (360-280 a.C.), a Filemone (360 ca-263 a.C.), ma anche ad autori minori. Plauto non mostra preferenze letterarie: la conoscenza diretta di ciò che piace al pubblico gli fa scegliere di volta in volta i modelli. Si leggono, in alcuni prologhi, le parole barbare (tradurre dal greco in latino) e l’indicazione della fonte; ma quanto Plauto sia fedele ai modelli è un problema irrisolvibile per l’impossibilità di mettere a confronto i testi latini con quelli greci, praticamente del tutto perduti.

Plauto e l’ autonomia delle fonti

È comunque ormai universalmente riconosciuta la grande autonomia del poeta dalle fonti e, in generale, dalla commedia greca. La coerenza di stile delle varie opere plautine male si concilia con modelli di testi e di autori diversi. Inserite nell’ambiente greco si trovano continue allusioni al mondo romano, ai suoi costumi e alla sua vita, al pubblico in teatro; e poi metafore, una lingua vivace e popolaresca, del tutto personale, toni decisamente più buffoneschi di quelli riscontrabili nel teatro greco, così pieno di sottile umorismo. Lo stesso si può dire per l’incongruenza e l’esagerazione di certi intrecci; anche i nomi greci dei protagonisti sono inventati da Plauto e raramente si ripetono nelle varie commedie.

La creazione linguistica di Plauto

La beffa è così importante per Plauto, che egli la mette anche dove nel modello greco non c’è, o la potenzia considerevolmente dove già c’è. In una di queste due possibilità rientra certamente il finale farsesco della Casina, cioè le “nozze maschie”, ma può anche capitare che Plauto raddoppi addirittura la beffa (Miles gloriosus: beffa al servo di fiducia del soldato, Sceledro, in aggiunta a quella al soldato stesso) e che giunga persino a concepire più beffe giocate contemporaneamente a personaggi diversi (Pseudolus) e beffe sempre diverse ai danni di uno stesso personaggio (Mostellaria).

Già da un quarto di secolo la pubblicazione delle sezioni meglio conservate di un papiro trovato ad Ossirinco ci consente un coni diretto tra una commedia di Plauto, le Bacchides («Le [due] Bacchidi»), e il modello attico, il Dìs exapaton («Il doppio inganno») di Menandro. Plauto non si è certo limitato a cambiare il titolo dell’originale: ha cambiato il metro di alcune scene (dai trimetri giambici ai più lunghi e musicalmente mossi settenari trocaici), ha costantemente trasformato il tono medio menandreo in esuberanze verbali, ora concettose ora patetiche, ha inserito un monologo, ha tagliato e ricucito, anche un po’ bruscamente, per semplificare taluni passaggi un po’ troppo sottili e psicologicamente complessi di Menandro, ha potenziato la figura del servo furbo, facendone il protagonista.

In linea con tali innovazioni appare anche il trattamento riservato ai nomi dei personaggi. Siro, il servo furbo di Menandro, in Plauto diventa Crisalo, nella cui radice è riconoscibile il riferimento al termine greco che significa «oro», un materiale che il servo per ben due volte si impegna a far saltar fuori (opus est chryso Chrysalo «Crisalo ha bisogno d’oro», v. 240), riuscendovi due volte. Diversa sorte tocca invece a Lido (Lydòs), il pedagogo, che resta Lydus: ma in latino questo nome si prestava a bisticci (particolarmente indovinati, trattandosi di un uomo di scuola) con ludus, che significa «gioco», ma anche appunto, «scuola» (entrambi i significati nella battuta non omnis aetas, Lyde, ludo convenit, v. 129).

Di fatto, ancor prima che nelle modifiche apportate alle trame dei modelli, è nell’invenzione metrico-musicale e in quella più propriamente linguistica (ad esempio, come qui, nell’ambito dei nomi propri) che è possibile cogliere la misura dell’arte di Plauto.

La commedia nuova ateniese non contemplava, di regola, parti cantate (se non, al di fuori della vicenda, negli intervalli tra un atto e l’altro): nel corpo della commedia comparivano solo, e s’alternavano, trimetri giambici, meramente recitati, e versi più lunghi, recitati e con accompagnamento musicale (di flauti). In Plauto, troviamo parti recitate in senari giambici, dette deverbia (nei codici indicate con la sigla DV) e parti recitate con possibilità di accompagnamento musicale in settenari trocaici, dette cantica (sigla C); troviamo parti musicate e cantate, vere e proprie “arie”, dette mutatis modis contica (sigla MMC), nelle quali a versi lunghi si alterna una gran varietà di versi più brevi.
Si pensa che il teatro latino fosse in questo debitore al teatro comico siceliota e italiota (più libero di quello attico) e che tali metri avessero avuto una loro storia latina anteriore all’introduzione del teatro attico. È comunque probabile che agisse in qualche modo anche il diretto influsso della pratica teatrale greca d’età ellenistica, che sappiamo volta a musicare parti non liriche della tragedia euripidea e della commedia di tipo menandreo: ma è certo che la responsabilità di gran parte della stupefacente complessità, arditezza e maestria, in particolare dei mutatis modis contica, sia da imputare ai poeti drammatici latini, su tutti a Plauto stesso.

Ma quel che forse è ancor più notevole è che l’impegno metrico-musicale non si riduce, in Plauto, ad un fatto di puro abbellimento, ma corrisponde ad una musicalità più interiore, ad un ritmo mentale e di reinvenzione letteraria e drammatica che si traduce in musica, se così si può dire, anche nelle commedie in cui di musica in senso proprio (in particolare di “arie”, di MMC) ce n’è ben poca o non ce n’è affatto. Plauto ama infatti procedere per metafore-guida (o motivi-guida): pone all’inizio una serie di temi (denaro e guadagno, sesso e cibo, vista e odorato, diritto e punizioni, guerra e caccia, arte di navigare e di costruire, far teatro) che poi sviluppa e varia, con attitudine veramente “musicale”, per l’intero svolgimento dell’azione, sino al termine.

Ed è appunto in questa complessa tramatura di immagini e motivi che si collocano le più notevoli e divertenti invenzioni verbali dei personaggi plautini, in particolare dei personaggi-poeti per antonomasia, i servi furbi. A cominciare dai loro stessi nomi. Se il Crisalo delle Bocchides deve il suo nome alle magiche capacità che possiede di procurarsi cospicue quantità di denaro in «oro» sonante, lo Pseudolo della commedia omonima si chiama così perché è come un poeta: come un poeta inventa cose che non esistono nella realtà e dunque sono cose non vere, «menzogne» (in greco menzogna è pseudos), così Pseudolo “inventa” il denaro che non c’è e di cui ha bisogno il padroncino per riscattare la cortigiana del suo cuore.

Si tratta, in sostanza, di “nomi d’arte”, che si collegano perfettamente coi motivi-guida, rispettivamente, di Bacchides e Pseudolus, ne costituiscono il motivo-conduttore. Nel Persa, il cui tema principale è quello del «guadagno», l’anonima figlia di parassita che, sotto le mentitissime spoglie di schiava araba, sta per essere venduta all’incauto ruffiano, quando questi le chiede: «Come ti chiami?», gli risponde: «Mi chiamo Guadagnina (Lucris)!», provocandone l’ovvio commento: «Se ti compro, spero che sarai guadagnina anche per me!» (Persa 624-627).

Ancora nel Persa, l’esotismo su cui è imperniata la beffa favorisce anche un’altra invenzione. A vendita compiuta, prima di congedare il sedicente «persiano» (in realtà il servo Sagaristione), il ruffiano, sempre lui, gli chiede – tanto così, per sapere – come si chiama. «Sta a sentire”, risponde Sagaristione, “e lo saprai: Regalavuoteparòlide Vendivergìnide Contabàllide Trapanargèntide Dicoquelchetimerìtide Menzògnide Ruffiànide Quelchetihoprèside Maipiùteloripìglide. Eccoti accontentato!”. “Per Ercole, questo tuo nome, ci vuole un’ora per scriverlo tutto!”. “Beh, questo è l’uso persiano: abbiamo nomi 1unghi e tutti aggrovigliati”» (vv. 701-708). Come si vede, la desinenza greca del patronimico (quella del Pelide Achille…) serve a “generare” una serie di finti nomi propri dal significato latino che nel loro insieme costituiscono un discorso perfettamente chiaro, equivalente di fatto ad un riassunto della trama (della beffa).

Nelle invenzioni nominali plautine anche altre desinenze greche danno prova di notevole creatività. Ad esempio, quella aggettivale -inus, -ina (con la -i- breve). Sebbene nettamente sovrastata da quella in -inus, -ina (con la -i- lunga), essa non era ignota al latino: già al tempo di Plauto si era inserita nel sistema morfologico facendosi diretto tramite di numerosi aggettivi greci di materia come crocinus («di croco»). Plauto se ne servì per trovate come le fustitudinae e ferrcrepinae insulae (le «Isole Prendibastonie e Stridiferraie») di Asinaria 33, ma soprattutto per l’invenzione di Casina, l’invisibile protagonista della commedia omonima, l’avvenente trovatella contesa tra padre e il figlio: Casina significa infatti «la ragazza che profuma di cannella (casia)», ed è nome particolarmente adatto ad un personaggio che affascina e innamora di sé (la casia era un profumo molto caro e ricercato), e che, pur non comparendo mai in scena, vi aleggia, come invisibile e penetrante profumo (qual era di fatto la casia), grazie al suo continuamente ripetuto, anzi ardentemente invocato, dal principio alla fine dell’azione. Casina è, di fatto, il tema conduttore della commedia, di cui segue anche le peripezie finali: in conformità con delle “nozze maschie” (il servo Calino si traveste da Casina e ne prende il posto anche nel mistero dell’alcova), alla fine sentiamo parlare non più di Casina, bensì di Casinus.

L’abilità di Plauto nell’inserire l’elemento romano (e italico) in un contesto ufficialmente greco e la sua felicità nella scelta di argomenti antropologicamente nodali come la lotta per la donna e/o il denaro, non sarebbero state nulla, non sarebbero mai arrivate – come invece arrivarono – al cuore della gente, senza il sostegno di quest’invenzione linguistica continua. Lo stile di Plauto ebbe la straordinaria capacità di cogliere nella vita pubblica e privata, solenne o d’ogni giorno, tutte le voci, tutti i gerghi e gli stili, facendone il pretesto per una vera e propria “festa di parole”, nella quale la città si mostrava capace, pur al di fuori dei Saturnali, di ridere salutarmene – catarticamente – di sé.

Una comicità farsesca

Le palliate di Plauto non contengono satira di costume o ammiccamenti alla vita contemporanea romana e, tanto meno, l’atteggiamento pensoso e malinconico dell’ateniese Menandro, che impronta gran parte del teatro di Terenzio. Il suo è un mondo di farsa popolaresca, incalzante e aggressiva, corposa e grottesca, di cinismo spregiudicato e di assoluta amoralità, in cui si fanno largo solo gli astuti e gli imbroglioni: quello che conta è raggiungere lo scopo prefissato. L’autore non si cura minimamente di dare valutazioni etiche o messaggi esistenziali. Alcuni dei personaggi più riusciti sono moralmente condannabili: si pensi alla spassosa e cinica malvagità del lenone Ballione nello Pseudolus o alla vanteria senza limiti del soldato nel Miles gloriosus, che ha avuto tanta eco nella produzione comica di ogni epoca. Non vi sono presupposti culturali o filosofici né problemi psicologici: lo scrittore vuole solo divertire il pubblico, cosa del resto non facile in un teatro che è composto da un palcoscenico posto in una piazza, con il pubblico in piedi e perciò più facilmente soggetto alla distrazione. L’invito scherzoso, che l’autore spesso rivolge agli spettatori, di seguire la rappresentazione in silenzio, mantenendo l’ordine e l’attenzione, aiuta a comprendere quale doveva essere l’atmosfera delle rappresentazioni teatrali nell’antichità. Gli attori, lo schiavo in particolare, dialogano spesso con il pubblico, gli chiedono di aiutarli nel loro compito, raccontano ciò che sta accadendo dietro le quinte: è il cosiddetto metateatro, il teatro nel teatro.

Il ruolo della fortuna

La fortuna è un elemento importante soprattutto per la figura del servo. Essa infatti gli è d’aiuto quando questo mette in pratica la sua astuzia: egli non sarebbe riuscito, altrimenti, a realizzare i propri piani ogni volta lo avesse desiderato. La fortuna contribuisce, dunque, al successo del servo. Questa particolarità si riscontra anche nella commedia Aulularia, in un’esclamazione del servo Strobilo, quando ode dove l’avaro Euclione avrebbe nascosto il tesoro: “I numi mi vogliono proprio bene”(atto IV-scena sesta).

La fortuna del teatro plautino

Medioevo e rinascimento

Le “venti commedie” che risalivano alla raccolta di Varrone, continuarono ad essere ricopiate per tutto il Medioevo, ma la lettura diretta di Plauto rimase per tutto questo periodo un fatto eccezionale. Dante e i suoi contemporanei ignoravano i testi plautini, mentre gran fortuna ebbe Terenzio. Comunque all’incirca a partire alla generazione di Petrarca una parte delle commedie plautine cominciarono ad avere una buona diffusione. Ma presso gli umanisti italiani tornarono in circolazione anche le altre commedie. Nasce il lavorio filologico sul testo di Plauto e rinasce la passione per questo autore. Da una parte ci si preoccupa di ristabilire un testo sempre più attendibile e corretto, e dall’altra si rivivono queste opere nella loro originaria destinazione scenica: sia attraverso rappresentazioni in latino, sia sempre più con rappresentazioni tradotte e attraverso adattamenti. La commedia umanistica vive appunto di adattamenti e di libere trasformazioni dei modelli plautini: si sviluppa un teatro in latino e poi un teatro in italiano, che si ispira liberamente a Plauto e alla palliata romana senza però limitarsi a tradurre. Il teatro comico dell’Ariosto ed anche un’opera profonda come la Mandragola di Macchiavelli, rientrano in questa tendenza, e devono molto all’assimilazione del modello platino.

Età moderna

Tra Cinquecento e Settecento, tra Ariosto e Goldoni, la fortuna di Plauto è sempre intrecciata con lo sviluppo del teatro comico europeo, nomi così diversi tra loro: Shakespeare, Moliere, Beaumarchais, sono tutti collegati da una traccia di una tradizione platina. Una figura chiave del teatro di Plauto, il servo, disegna l’evoluzione della commedia e dell’opera buffa fino all’Ottocento. Plauto è certamente ancor oggi il più rappresentato di tutti i poeti scenici latini.

Plauto e la scuola

A differenza di Terenzio, Plauto rimase invece per lungo tempo estraneo alla tradizione dell’insegnamento. Le ragioni sono molteplici: lingua, stile e metrica di Plauto risultavano troppo difficili anche nelle scuole dell’antichità, e richiedevano particolari strumenti di comprensione; inoltre l’insegnamento della grammatica e dello stile latino aveva bisogno di autori più disciplinati, più attenti a norme di regolarità linguistica; a Plauto si preferivano Cicerone e Terenzio. Per di più i temi e le trame delle commedie si prestavano male a un insegnamento rivolto a fornire esempi di moralità e serietà: anche in questo la fortuna di Terenzio è del tutto opposta.

Plauto e i teorici della letteratura

Plauto era destinato ad incontrare parecchie difficoltà anche presso i teorici della letteratura, soprattutto quando, nel Seicento e nel Settecento europeo, l’ondata del Classicismo propose ben diversi modelli di comicità e di forma teatrale. Più tardi anche la “non-originalità” di Plauto, fu un’accusa che servì a screditare l’immagine delle commedie. Alla fine del Settecento un impulso al recupero di Plauto venne da un autore tedesco, critico e drammaturgo, il Lessino, che recuperò nei suoi scritti estetici il valore della comicità platina. Da allora, nonostante le svalutazioni romantiche, l’apprezzamento di Plauto è stato sempre in crescita.

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