1. Poesia e ontologia fu scritto nel 1967 e poi riedito nel 1985, in un clima culturale ben diverso da quello attuale e con obbiettivi polemici, quali il neo-marxismo e lo strutturalismo, che hanno ormai perso quasi totalmente la loro rilevanza. Benchè la situazione â nota lo stesso Vattimo nella prefazione alla seconda edizione – dal punto di vista del dibattito dellâestetica, della critica e della poetica sia molto mutata, il libro non ha perso dâattualità nella sua tesi centrale: âla rivendicazione della portata ontologica dellâarte e della poesiaâ(p. 5). Il libro non si limita, infatti, a proporre una teoria estetica, ma applica allâestetica una ben più ampia posizione teorica in merito a problemi capitali della filosofia, quali il senso della verità e dellâessere. Verità ed essere, e loro relative semantizzazioni, fanno da sfondo a tutto il discorso di Vattimo, rendendolo immune dallo scolorire delle mode e del tempo. Occorre qui, in via preliminare, abbozzare la posizione di Vattimo su verità ed essere. La verità , nella tradizione metafisica, ò stata sempre intesa come il rispecchiamento di un dato, lâadeguazione alla presenzialità dellâessere: da una parte lâessere nella sua già data, già completa presenza, e dallâaltra il pensiero che tenta di rispecchiarlo, e che tuttavia in questo rispecchiamento non aggiunge nulla allâessere. Vattimo, raccogliendo suggestioni heideggeriane, nicciane e gadameriane, intende la verità come evento, come âlâaprirsi di orizzonti storici entro cui gli enti vengono allâessereâ(p. 123); e, come tale, essa deve accadere e ânon ò nulla al di fuori o al di sopra di tale accadereâ(p. 123). La verità ò, in latri termini, la posizione di un mondo, di un orizzonte di significati entro cui si può dare vita, storia, cultura, sviluppo: le verità coincide, niccianamente, con le condizioni di affermazione della volontà di potenza, come dispiegamento di senso e di mondo. Lâessere, anchâesso, avrà struttura eventuale, e non già presenziale: esso ò il declinarsi delle sue incarnazioni, cioò delle epoche, dei mondi in cui, ad un tempo, si propone e si ritrae dando vita e alimento agli enti che popolano questi mondi; ma esso non ò nulla al di fuori di questo suo declinarsi, esso non ò il permanente al di sotto delle sue incarnazioni di mondo, poichè lâessere ò sempre essere dellâente, di ciò che entro un mondo viene ad essere. Chiariamo che il termine mondo non indica la totalità del dato, ma lâorizzonte, lâ ordine di apertura di una prospettiva sotto la quale si raccolgono gli enti e i loro rinvii significativi. Entro un mondo gli enti hanno lâessere, e lâessere si dà , si mostra pur ritraendosi, sempre e solo nel mondo: lâessere può manifestarsi in altri mondi, ma mai al di fuori dellâaccadere della mondità . Eâ significativo, a questo proposito, che Vattimo giudichi il principio ânulla si crea e nulla si distruggeâ come espressione della vecchia metafisica: lâessere infatti si stratifica e aumenta, nella misura in cui accade ad esso di mostrarsi in nuovi e diversi mondi, e questo suo contenuto che si mostra non era già altrove, in precedenza, ma si costituisce in assoluta novità . Fatte queste precisazioni introduttive possiamo passare ad affrontare il corpo del testo. Il filo argomentativo del discorso di Vattimo si chiarisce se immaginiamo che esso risponda a quattro domande poste da altrettanti lettori: un filosofo, un artista, un critico e un comune fruitore dâarte. Il filosofo domanderà : in che senso la poesia ha che fare con lâontologia? Lâartista: che cosâò il fare artistico? Il critico: come devo leggere, inteprertare, spiegare unâopera dâarte? Il fruitore, infine: in che consiste la fruizione artistica? La risposta che sarà data al filosofo ò quella decisiva e che deciderà della plausibilità delle risposte date agli altri. Per questa ragione ci pare conveniente rimandarla alla fine, benchè essa sia operante sia allâinizio che alla fine. Per ora basti dire questo: la poesia ò ontologia perchè ò aperta allâessere, perchè il suo radicamento non ò limitato alla coscienza dellâuomo ma a qualcosa che la trascende, lâessere appunto. Problema sarà definire i caratteri di questa apertura allâessere e dellâessere stesso. 2. Il fare artistico Prima di determinare la posizione e il significato del fare artistico Vattimo analizza il fenomeno del proliferare delle poetiche nel 900: esse non sono precettistiche stilistiche, ma hanno piuttosto di mira proprio la determinazione di quel significato dellâarte che stiamo carcando; le poetiche del novecento, d’altronde, hanno uno spiccato carattere ontologico: considerano lâarte come il luogo in cui la verità ò raggiunta o istituita; ed hanno anche un significato epistemologico: intendono determinare la condizione disciplinare e le pretese che lâarte può rivendicare entro lo spazio della cultura e, più ampiamente, della vita. Perchè gli artisti sentono il bisogno, quasi al punto di soffocare il loro fare artistico, di munirsi di un apparato epistemologico che li protegga e li giustifichi? Una prima spiegazione potrebbe essere che lâartista, mutato il rapporto con il proprio pubblico nella società industriale e di massa, e avendo perso un contatto immediato con i committenti, tenta di recuperare una propria visibilità rivendicando il diritto alla sua esistenza; una seconda spiegazione potrebbe essere che lâartista, trovandosi di fronte allâimpellenza, quasi ossessione, di produrre unâopera originale, non veda altro mezzo che la fondazione di un linguaggio completamente nuovo che non si rifaccia a nessuna tradizione precedente, un linguaggio che per dirsi tale ha bisogno di un quadro teorico-epistemologico di natura, daccapo, giustificativa. Vattimo vuole andare al di là di queste spiegazioni che, a suo parere, non colgono lâaspetto decisivo e muove da una considerazione elementare: le opere dâarte contemporanea, per essere fruite, hanno bisogno di un cappello critico che le introduca e le spieghi: il linguaggio dellâarte necessita della mediazione del linguaggio-parola, non ò più autosufficiente: le poetiche aprono proprio quellâambito di comprensibilità che dischiude lâintelligibilità del linguaggio dellâopera dâarte e colma la sua insufficienza comunicativa. Sorge unâaltra domanda: perchè il linguaggio dellâarte deve essere supportato dal linguaggio-parola? La risposta a questa domanda ci porterebbe direttamente alla discussione sulla fruizione artistica; per quel che fin qui interessa occorre notare che lâartista, nel 900, ò portato a farsi epistemologo di se stesso: il fare artistico sembra così legarsi alla giustificazione di se stesso. Veniamo ora alla determinazione più diretta del fare artistico, il quale ha che fare con la novità , con il bello, con la verità e con lâessere. La trama concettuale in cui si iscrivono queste quattro parole ò decisiva. Cominciamo dalla prima. In riferimento alla teoria della formatività del suo maestro Luigi Pareyson, Vattimo sostiene che lâopera dâarte ò sì nuova, ma non ò un fatto arbitrario: essa possiede infatti una legalità rigorosa. Câò, in altri termini, una legge che decide della struttura dellâopera e che la trascende: tale legge però non può precedere il farsi dellâopera, pena il venir meno la novità dellâopera. Ecco che fa la comparsa la categoria del formare, cioò un fare che nel suo farsi inventa la regola, la legge, del suo fare. La novità dellâopera ò salvaguardata dal fatto che la legge ò istituita dallâopera stessa; accanto a questa novità , che quindi ben lungi dallâarbitrarietà , sta la legalità dellâopera, carattere indispensabile per dare senso al giudizio estetico e alla categoria del bello. Lâopera sarà , infatti, giudicata proprio in riferimento alla legge che porta con sè: se ò ciò che la sua legge impone che sia, essa sarà giudicata bella. La bellezza ò quindi la riuscita, la conformità dellâopera alla legge. I concetti di novità come istituzione di una nuova legge e di bellezza come riuscita, rinviano entrambi al radicamento ontologico dellâopera dâarte. Lâopera dâarte, in quanto istituente una nuove legge, sarà atto fondativo di un mondo, sempre da intercedersi, non come totalità del dato, ma come orizzonte di senso entro cui gli enti sono ordinati ed hanno significato: ed ò proprio la legge istituita a garantire la legalità del nuovo mondo. La novità dellâopera diventa così lâoriginarietà di un nuovo mondo, che non ha nulla alle sue spalle perchè ò a partire da esso che si costituiscono tutte le relazioni, a cominciare da quelle linguistiche tra segno e significato. Se la legge ò la struttura di legalità del nuovo mondo, lâopera dâarte che ò conforme alla legge, rappresenta il primo ente di questo mondo: la relazione di conformità e di bellezza non ò di esaurimento, ma di avvio di una generazione di enti che prenderanno senso del mondo appena istituito. Quanto alla relazione tra opera e verità , con Heidegger Vattimo propone che lâopera dâarte sia la messa in opera della verità , ma non nel senso che essa manifesti o rispecchi la verità : se così fosse continueremmo ad âassumere la verità come conformità ad un dato che può garantire la validità della conoscenza e delle manifestazioni della verità proprio in quanto ò dato una volta per tutte, stabilito, sottratto allâeventualitaâ(p. 123). La verità va pensata, invece, come evento: âò lâaprirsi degli orizzonti storici entro cui gli enti vengono allâessereâ; essa non ò nulla al di fuori del suo accadere come prospettiva di mondo. Per cui lâopera dâarte mette in opera la verità , in quanto ò nel mondo da essa fondato che la verità si mostra: il rapporto tra opera e verità non ò quindi estrinseco, perchè la verità non ò se non il suo accadere secondo prospettive di mondo aperte. La verità potrebbe sembrare, in questa prospettiva, la semplice formalità legislativa e di mondo istituita dallâopera e la fedeltà ad essa: non bisogna però dimenticare il radicamento ontologico dellâopera dâarte, collocata, secondo una metafora heideggeriana, nel Riss(scissura) tra Welt(mondo) e Erde(terra). Il mondo ò il sistema di orizzonte degli enti; la terra ò âla riserva permenente di questi significati, la base ontologica del fatto che lâopera non si lascia esaurire da nessuna informazioneâ. (p. 124). Lâopera dâarte istituisce un mondo e, come tale, dà inizio alla storia delle sue inesauribili interpretazioni, delle sue abitazioni, secondo un senso che sarò chiarito tra poco: per rendere ragione di questa inesauribilità dobbiamo ammettendo che il mondo dellâopera si radichi nella terra, in uno sfondo ontologico che lo precede; ci si potrebbe a questo punto domandare: che cosâò questo sfondo ontologico, questa terra, se non quellâessere già dato, già posto, della vecchia tradizione metafisica? In realtà quello sfondo ontologico ò âuna riserva di significatiâ, la pura possibilità del loro essere esibiti in un mondo: in quello sfondo ontologico le cose non stanno, se non nella loro disposizionalità ad esser nel mondo, unico luogo in cui propriamente stanno. Lâessere, conviene ribadirlo, non ò la presenza posizionale del dato, visibile da diversi mondi-orizzonti, ma ò solo i suoi mondi, orizzonti di illuminazione entro i quali gli enti ricevono lâessere; lâapertura di una nuova prospettiva di mondo, evento in cui consiste il fare artistico, non ò un evento ontico, cioò di riprospettazione degli enti entro lo stesso mondo, ma ò un evento dellâessere, segna una nuova epoca dellâessere. 3. La critica dâarte La critica si ò sempre mossa nella fedeltà alla categoria dellâ Aufhebung, cioò della spiegazione-riduzione dellâopera dâarte a qualcosa che la preceda o la fondi: si può ridurre lâopera alla situazione storico-economico-sociale in cui si colloca, alla situazione psicologica dellâartista, oppure si può leggerla badando esclusivamente alle sue strutture stilistiche. In entrambi i casi, e per la critica che riduce lâopera a uno sfondo che la precede e per quella stilistica, lâopera ò un punto di arrivo, una conclusione individuante di fatti economici, psicologici, storici o tecnico-linguistici. Lâopera ò così sistemata, demitizzata, razionalizzata, ò ridotta ad un evento del passato: sia questo passato la situazione storica o lâorizzonto tecnico formale che lâopera si impegna ad esprimere al massimo grado. Vattimo cerca invece un approccio allâoggetto, in questo caso allâopera dâarte, che non lo riduca ad un orizzonte più ampio, e così facendo, lo distrugga. Eâ posto così il problema di unâermeneutica che si metta a disposizione del suo oggetto, che lo lasci essere. Va ribaltato, secondo Vattimo e sulla scia di Heidegger, il rapporto tra opera e lettore di essa: il lettore deve stare dentro lâopera, deve provare ad abitarvi, e non viceversa lâopera abitare nella coscienza fruente del lettore. Proprio perchè lâopera ò istituente un mondo, in tale nuovo mondo il lettore deve provare a vivere. Esempi di questo vivere ed abitare del lettore e della critica nellâopera possiamo ritrovarli nellâatteggiamento della cultura occidentale nei confronti della Bibbia, tanto che âla storia dellâOccidente â scrive Vattimo – ò la storia delle interpretazioni della Bibbiaâ (p110). E interpretare unâopera significa approfondire le direzioni di significato che il mondo che essa istituisce ci offre: essa crea il mondo, noi, suoi interpreti, dobbiamo viverlo, costruirlo, svilupparlo, prendercene cura, abitarlo appunto. Lâ opera, quindi, più che costituire un punto di arrivo, ò un punto di partenza per nuove costruzioni-abitazioni: ò rivolta al futuro nei suoi sviluppi, e segna, in quanto atto istitutivo di mondo, lâescaton, lâorizzonte confinale, di questi sviluppi. Solo tenendo conto di questo una ermeneutica non riduzionistica può lasciar essere lâopera. A questo punto Vattimo si trova a dover affrontare una delicata difficoltà : come può lâopera essere intesa quale fondazione di un mondo e come si può pretendere che il compito del critico sia dar voce alla necessità del suo abitarlo? Non ò questo statuto dellâopera una mitizzazione dellâopera? Certo, non tutte quelle che consideriamo opere dâarte posso essere aperture di nuovi mondi, ma ciò non toglie che la peculiarità dellâopera dâarte sia proprio questo istituire nuovi mondi: come a dire che lâistituire nuovi mondi ò un carattere regolativo di ogni opera dâarte, anche se non tutte riescono a realizzarlo. 4. La fruzione artistica Nella storia dellâestetica lâincontro con lâopera dâarte ò definito in due modi: contenutistico o formalistico. Tale opzione sottende altrettanti modi di intendere la verità : quello corrispondentista del vero come conformità al dato, e quello coerentista del vero come correttezza sintattica. Lâarte, nella tesi contenutistica, manifesterà il vero e lâincontro con lâopera sarà proprio questa manifestazione; nella tesi formalistica, lâopera si imporrà nella sua coerenza di struttura sintattica. In entrambi casi si pongono alcuni problemi problemi: per la tesi contenutistica lâopera ò un tramite di verità e, concluso il suo compito di metterci in contatto con la verità , diviene inessenziale, laddove lâarte, per evidenza, si impone sempre come sporgente su quella verità che comunica; per la tesi formalistica la fruizione si risolverebbe nella comprensione dei meccanismi sintattico -formali che sottendono al dispiegarsi dellâopera: eppure, anche qui, la comprensione dei meccanicismi non fa cessare il nostro interesse per lâopera, il che sta ad indicare che essa non ò solo i suoi meccanismi. Si deve quindi evitare, da un lato, di rendere estrinseco il rapporto opera e verità e, dallâaltro, di ridurre lâopera alla pura fedeltà formale a se stessa. Se la concezione di verità non ò più quella di rispecchiamento, ma di accadimento di mondi, secondo quanto sopra detto, lâopera dâarte, proprio in quanto apertura di un nuovo mondo, intrattiene con la verità un rapporto non estrinseco: solo nel mondo dellâopera la verità si mostra ed ò possibile, e non fuori ed indipendentemente da esso. Dâaltra parte la verità dellâopera non può essere la fedeltà alla struttura legalistica del mondo istituito: il legame con lâessere, con la terra, non deve essere dimenticato; lâopera dâarte ò il punto di partenza per infinite interpretazioni, per infinite visioni del suo mondo perchè ò in contatto con la riserva di possibilità significative in cui lâessere, nella sua forza originante, consiste. Fruire unâopera dâarte significherà , quindi, vivere nella sua luce, âriorganizzare la propria esistenza e la propria visione del mondo in base allâapertura dellâessere che nellâopera ò accadutaâ(p. 127); in una parola: dialogare con essa. Lâopera stimola e suggerisce percorsi di approfondimento del suo mondo e diventa così una entità dotata di personalità e di capacità di mondo, mostrando singolari parallelismo con il dasein. Eâ così anche chiarita la domanda lasciata in sospeso sul perchè le opere hanno bisogno di un linguaggio-parola che fondi il loro linguaggio: ne hanno bisogno non in quanto questâultimo vada ricondotto ad un altro linguaggio, ma in quanto istituiscono un nuovo mondo, un nuovo plesso di significati e suscitano attorno a sè un dibattito. Il proliferare delle poetiche nel 900â ò il segno di questo dibattito e della implicita consapevolezza del carattere fondante di mondi dellâopera dâarte. 5. Poesia e ontologia Siamo così finalmente giunti al capo di tutte le questioni: che cosa hanno che fare poesia e ontologia? Per porre ontologicamente il problema dellâarte e della poesia, sostiene Vattimo, bisogna âsviluppare un discorso che non dimentichi quella che Heidegger ha chiamato la differenza ontologica, ma anzi assuma tale differenza a proprio tema centraleâ (p. 9). Differenza ontologica ò il rapporto che separa lâessere e gli enti: Vattimo individua due caratteri di tale differenza, lâuno negativo e lâaltro positivo, sintetizzabili così: lâessere non ò lâente e lâ essere ò solo lâessere dellâente. Lâessere non ò lâente, perchè fornendo lâorizzonte entro cui gli enti vengono ad essere, si dà e si cela ad un tempo: ò questa lâepocalità dellâessere, il suo sospendersi per lasciar essere gli enti. Lâessere, ciò per cui gli enti sono, non va mai confuso con gli enti stessi, la loro somma o il massimo ente tra di essi. Tale carattere negativo del rapporto essere-ente fa sì che qualsiasi indagine determinata sulla struttura degli enti non possa dire nulla dellâessere. Ma esiste anche un lato positivo del rapporto: il celarsi o sospendersi dellâessere ânon ò certo concepibile come un essere-presente in qualche luogo che non sia il mondo dellâente, come se davvero lâessere fosse qualcosa o qualcuno che câò, in qualche luogo, ma che si nascondeâ(p. 21); possiamo quindi affermare che lâessere ò la sua epochò, ò âlâilluminazione dellâ ambito entro cui gli enti appaionoâ(p. 23): la forza illuminante dellâessere ò solo nel mondo degli enti, lâessere ò solo essere dellâente. Dallâaccentuazione dellâaspetto positivo della differenza ontologica possono venire, secondo Vattimo, numerose indicazioni per caratterizzare una estetica come ontologica. Se lâessere non ò âuna struttura tutta realizzata, facente da supporto, da sostanza, agli entiâ(p. 22), la ricerca filosofica dellâessere consisterà nellâindividuazione âdei modi di accadere attualmente degli enti nellâorizzonte dellâessereâ. E analogamente la ricerca estetica consisterà nel descrivere i modi di accadere attuali del fenomeno estetico. Lâestetica ontologica non sarà quindi una posizione che si sostituisce a quelle delle estetiche della tradizione filosofica, e neppure che tenta, hegelianamente, di dialettizzarle nel tutto dello sviluppo storico. Non si tratta di accedere allâessenza del fenomeno artistico ed estetico al di là dei suoi modi concreti di accadere e neppure di cogliere olisticamente la totalità di questi modi di accadere. Lâessenza che lâestetica di Vattimo cerca ha carattere eventuale, nel senso di una perenne rideterminazione della sua struttura: ò sufficiente descrivere tutto ciò che ha che fare con lâarte, teorizzazioni estetiche, ma anche poetiche, manifesti, singole riflessioni su singole opere, come rappresentativo dellâessenza dellâarte, nella consapevolezza che essa non ò nulla al di fuori delle sue incarnazioni accadute. In questo senso si può fare estetica non solo in sede di riflessione filosofica, ma anche in altri ambiti, poichè tutti illuminano lâessenza dellâarte: pretendere che lâestetica sia solo filosofica ò pretendere che lâessere e il sapere abbiano una struttura gerarchizzata, definitiva, sistematica; lâessere ò invece stratificazione di esperienze e di modi, tra i quali sta anche,, ma tra gli altri, la riflessione filosofica estetica. Fin qui si ò fatta valere lâesigenza di considerare lâarte come evento la cui a essenza non ò restituita da una singola posizione, ma da ogni posizione, filosofica e non. Questa esigenza deve però accompagnarsi alla consapevolezza dellâapertura allâessere di ogni riflessione estetica: si tratta di mostrare che a tutti i livelli della descrizione lâessere si fa presente, e questo ò il carattere eventuale ed epocale dellâessere. 6. Non possiamo trattenerci, in sede critica e conclusiva, dal sottoporre alcune perplessità in merito alle tesi del libro. La prima riguarda il rapporto tra poetiche e opere dâarte: il proliferare delle poetiche nel 900, si ò detto, ò il segno del dibattito, del dialogo che sorge intorno allâopera, proprio in quanto istitutiva di un nuovo mondo; a noi sembra, invece, che il fenomeno delle poetiche fondi e disponga le circostanze nel contesto del âvecchio mondoâ per creare il nuovo mondo che lâ opera inaugurerà : il fenomeno delle poetiche non sarebbe tanto un modo dellâabitare e del dialogare con lâopera, ma ciò che rende possibile, oltre il mondo dellâopera, la fondazione del suo mondo. Se così ò, il linguaggio-parola assume un carattere super-eventuale, sottratto alla relatività dellâambito di mondo e diventa ciò che domina la pluralità dei mondi e li mette in comunicazione: una conclusione simile che assegna al linguaggio un valore trascendentale e meta-mondano, peraltro, non dispiacerebbe allo stesso Vattimo; si tratta di capire in che termini, però, giacchè se lâessere-liguaggio ò dimensione trascendentale, dovrà essere semantizzato in termini di struttura permanente, immutabile, il che ò ben lontano dagli intenti di Vattimo. La seconda perplessità riguarda lâapparente contraddizione tra la risposta data al filosofo e quelle date allâartista, al critico e al fruitore: al primo si risponde che ogni fenomeno o posizione artistica ò rivelativa dellâessenza cercata, in quanto eventuale e non permanente; ai secondi si risponde determinando lâessenza permanente dellâopera dâarte e del rapporto con essa: dobbiamo forse ritenere che le risposte date ad artisti, critici e fruitori, proprio in quanto date a non-filosofi, si siano limitate a determinare provvisoriamente lâessenza permanente del fenomeno, salvo poi precisare, filosoficamente, che una essenza tradizionalmente intesa non può esserci? Questo significherebbe, allora, che solo al filosofo può essere consegnata una essenza nel suo carattere autentico, cioò eventuale, mentre con i non-filosofi si deve procedere nel modo tradizionale di determinazione dellâessenza: ma questo non significa una gerarchizzazione del sapere, un imperialismo della filosofia come sapere universalmente fondante, tutti caratteri che si volevano eliminare? La terza perplessità ò stata già formulata in termini di mitologizzazione dellâopera dâarte. Vattimo, per rispondere a questa obiezione, sostiene che poche opere dâarte possono essere considerate come fondatrici di mondo, e tra queste ritroviamo, ad esempio, la Bibbia o la Commedia di Dante. Ma nemmeno queste possono essere considerate fondatrici di mondo: se proviamo ad abitare il mondo della Commedia ci rendiamo subito conto di essere circondati da un tessuto simbolico che non possiamo capire, vivere, utilizzare, se non in riferimento a qualcosa di esterno al mondo dellâopera, cioò il contesto storico. Vattimo ci taccerebbe di sociologismo spicciolo, ma si tratta allora di capire in che termini unâopera ò abitabile e se essa può costituirsi anche come territorio ostile, inabitabile, radicalmente refrattario a qualsiasi tentativo di ermeneutica: non ò un fatto secondario che unâopera sia più abitabile in un periodo storico e meno in un altro; questo fa pensare che il mondo di ogni opera sia inscritto sempre in un mondo più ampio secondo una geometria concentrica di mondi. Tuttavia, la definizione dellâopera come fondazione di mondo ci sembra calzante, in via del tutto eccezionale, a proposito di opere collettive, vere âenciclopedie tribaliâ, come i poemi omerici o la Bibbia: in questo caso lâopera rappresenta la genesi culturale di una civiltà e di un popolo, la struttura del suo ethos. Lâultima perplessità riguarda la semantizzazione dellâessere che Vattimo propone. Per un verso sembra che lâessere sia solo il suo eventualizzarsi, ma per lâaltro lâessere ò identificato con quella riserva di significati, con la forza originante della terra. Se nel primo caso ò fatta valere lâesigenza di distaccarsi dalla tradizione metafisica che intende lâ essere come presenza data, nel secondo caso sembra che non ci si possa staccare da questa prospettiva presenziale, tanto che per rendere ragione del divenire delle interpretazioni entro il mondo, si deve postulare una possibilità permenante di significati oltre lâaccadere dellâevento e del mondo: certo questo âoltreâ non ha i caratteri della attualità presenziale, ma quelli della possibilità presenziale, il che non toglie che sia necessario ammettere un già -dato, un già -posto, pur nella sua accezione di posizione di possibilità .
- 1900
- Filosofia - 1900